Charles Dickens (1812-1870), “Canto di Natale”, in un disegno di John Leech datato 1843 - Archivio
«Radio e televisione hanno bombardato il pubblico di messaggi motivazionalizzati, nei ristoranti e nei caffè, sui cibi e nelle bevande sono state versate dosi di elisir promozionale, uomini e donne sono stati quindi presi da una irrefrenabile smania, entrano ed escono dai negozi, comprano, ordinano, spediscono, scrivono, telefonano firmano assegni e cambiali, giganteschi furgoni carichi di strenne intasano le strade della città, cataratte di Christmas cards, biglietti, buste, calendarietti, immagini ingorgano le sedi postali e quindi traboccano all’esterno».
Natale 1965: Dino Buzzati scrive uno dei suoi racconti di Natale più belli. Si intitola Una torta e una carezza. E in corpo di racconto, e a più riprese, eccolo impegnato nella descrizione dell’inquietante magmatica colata di regali pacchi bottiglie che va dilagando per le vie della città, occupandone ogni anfratto. E allora la gente a farsi largo in questo muraglione: bofonchia suda impreca, nel titanico sforzo di approdare alla soglia di casa.
Chi di noi si sente sbagliato, sente che ha fatto delle cose di cui non va fiero. Chi si sente inadeguato o sporco. Questa è la sua festa, perché Dio non ha pace finché non nasce lì e non accende lì la sua vita
Il Natale come una apocalisse annuale di cibo e regali. Da quando Dickens, nel 1843, scrisse il suo A Christmas Carol, la percezione dominante del Natale, il modo diffuso di raccontarlo, è diventato questo. Lo spirito del Natale ha cominciato a prendere questa forma: il genio della condivisione di doni, cibo e buoni sentimenti. Il ricco gelido Scrooge riceve, nella lunghissima notte, la visita dei tre spiriti: dei Natali passati, presente e futuri. E lo spirito del Natale presente è descritto appunto come una specie di nano gigante, cornucopia in mano, seduto su un cumulo di tacchini e patate arrosto. Cibarie e bevande in impressionante sovrabbondanza. Secondo un recente sondaggio di Too good to go, l'86% degli intervistati (in Italia) ammette di sprecare cibo durante le festività, con il 37% che butta via oltre un quarto del cibo acquistato. Un dato di Waste Watcher di qualche anno fa rilevava che a Natale, sempre in Italia, si gettano via circa 500.000 tonnellate di cibo, che corrispondono a circa 80 euro per famiglia.
Ma com’è che siamo arrivati a questo? Nella nobile casa dell’ingegner Regondi – continua Buzzati – è tradizione annuale che la vecchia tata, ormai accomodata in casa di riposo, venga richiamata per passare il Natale con la famiglia. Per due generazioni ha cresciuto i bimbi di casa, ora di forze da profondere non ne ha più ma, insomma, la si tira lì per compassione. E lei, come ogni anno, ingenua custode della tradizione, preparerà la torta di Natale, quella a forma di Gesù Bambino. Però adesso, in casa Regondi, c’è la nuova massaia, l’Alberta, «la fortissima cuoca»: lei è moderna, lei fa una torta di Natale diversa. Lei la fa a forma di cigni dai colli intrecciati. La vecchia tata, se proprio ci tiene a dare i natali al Gesù Bambino di marzapane, dovrà pian pianino ritirarsi: non può lavorare in cucina, perché lì signoreggia la fortissima Alberta. Allora si defila nel retrocucina, dove chi passa scambia con lei qualche battuta imbarazzata.
La torta di Gesù Bambino viene scalzata da quella alla moda, ma l’antico spirito la reclama e lascia la casa che ha dimenticato le cose più importanti
«Nell’office per caso entra la Barbarella: “Che cosa stai facendo, Tata?”. “Lo vedi. È la torta di Natale”. “Ancora?” dice lei. “Ancora?” ripete. E se ne va. Nell’office per caso entra Gepi Paolo. “Che cosa stai facendo, Tata?”. “Lo vedi, la torta di Natale”. “Ah”, dice Gepi Paolo, non una sillaba di più». Ma pian piano colano dall’esterno i pacchi, i biglietti, gli auguri: invadono la casa, dilagano nelle stanze, la spaventosa massa si divora ogni spazio. Ed eccola lì, la vecchia tata, che scivola più in là, batte in ritirata, si restringe in anticamera, e poi nello scantinato, «dove non c’è calorifero e dagli angoli escono le umidità schifose delle metropoli con l’abbandono e la rinuncia e la mortificazione totale. [...] Giù nello scantinato con i topi, gli scarafaggi, le limacce, le bisce e i così terribili che forse voi sapete, lei va a finire la sua meravigliosa torta, dove si lavora a lume di candela».
La torta a forma di Gesù Bambino si rifugia nello scantinato, perché su di sopra ci sono gli imbattibili cigni. È il solito simpatico Buzzati, che ammicca e parla per immagini. Mi fa pensare a quel che vedo qui in corso Garibaldi, a Milano. A cinquanta metri da qui le luminarie sono a forma di pacco regalo. E di pesce. Pesce?! Ma cosa c’entra il pesce? Non si capisce se è un tonno o una balena o una sogliola con problemi, ma è sicuramente un pesce. E in corso Como le luminarie sono a forma di ballerine.
In casa Regondi la torta è a forma di cigni dai colli intrecciati. Di Gesù bambini non c’è traccia. Ma com’è che siamo arrivati a questo? «E intanto l’antico spirito del santo Natale, librandosi nell’aria, si aggira nervosamente sopra la città, folle di rabbia. Che bestie gli uomini che sono riusciti a rovinare una così bella cosa mantenutasi decente per quasi duemila anni». Va a finire che lo spirito del Natale piomba in casa Regondi, proprio nel momento in cui la signora Fanny, la padrona di casa, «con un coltello d’argento stile Regina Vittoria», sta tagliando la torta dei cigni.
«Subbuglio, allarme, si alzano in piedi a precipizio. Gentile spirito – osa la signora Regondi –, vuoi sedere con noi? In che cosa possiamo servirti? La torta - fa lui schiumando di rabbia – la torta del Bambino Gesù! Mio Dio – esclama la signora Fanny che se ne era completamente dimenticata. Come mai la Tata non si è più fatta viva? Corrono nell’office, corrono in soffitta, corrono nel retrocucina, corrono giù nello scantinato gelido». E lì, nello scantinato, la intravvedono, sepolta sotto uno sproposito di biglietti d’auguri, pacchi e quant’altro. Spunta solo il piede, poverina. Dorme? Lo spirito del Natale fruga, la libera, la da’ una carezza, prende la torta a forma di Gesù Bambino e vola via giurando di non tornarci mai più, in quella casa.
Ma com’è che siamo arrivati a tutto questo? Ci siamo arrivati, dice Buzzati. Siamo sempre capaci di rovinare quel che di bello c’è sotto il cielo, e il Natale – dice – è una delle cose belle della vita. Ma c’è anche il fatto che il Natale ha davvero a che fare con lo scantinato. È nella natura del Natale il fatto che la sua luce si impegni a risplendere negli angoli bui. Il Messia di Israele, racconta il Vangelo di Luca, viene al mondo e subito costretto in una mangiatoia. Non c’è posto per lui nelle stanze di sopra, lì ci sono i cigni con i colli intrecciati.
Il grande nemico è la banalità, che nel racconto ha la forma del diluvio di oggetti, cibo e parole La banalità soffoca l’amore, corrode la gioia, rovina il dono
Ognuno di noi nasconde uno scantinato. Una stalla, il luogo del cuore in cui dagli angoli escono le umidità schifose, per dirla con Buzzati. Quella parte di me dove scendo di rado, dove sono a disagio, che puzza, dove sono accatastati i ricordi e le azioni e i sentimenti di cui non vado fiero, o che rilasciano dolore. Come la cantina fa parte della casa, come la stalla è parte essenziale della fattoria, così quella parte di me sono io.
Il Figlio di Dio vuole portare lì la sua luce e il suo calore. Siamo tutti disposti ad aprirgli il nostro palazzo di Erode, il marmo levigato dei bei pensieri, le migliori azioni, i sentimenti nobili. Ma la Vita vuole discendere più giù, più in basso nella mia terra, più in profondità nella mia casa, e assolutamente lì portare la libertà e la gioia che lo abitano.
Il Natale viene a consegnarmi il diritto di lasciare alla stalla che è in me la sua possibilità di esistere. Non sono costretto a negarla, a nasconderla. Posso riconoscerla e dichiararla. Posso dire a me stesso: il luogo adeguato per la vita di Dio è ciò che in me puzza e marcisce. Lì Dio vuole nascere ed esser chiamato per nome. È lì che sta già respirando. Magari occorre disseppellirlo, il Dio bambino in me, come la torta e la vecchia tata dall’arrembaggio degli auguri fittizi. Ma è certamente lì che vuole portare la sua luce, il suo calore, la sua pace. Chi di noi si sente sbagliato, fuori posto, sente che ha fatto delle cose di cui non va fiero e il cui peso si trascina dentro da tempo. Chi tra noi si sente malato, chi si sente inadeguato o sporco. Il Natale è la sua festa, perché Dio non ha pace finché non nasce lì e non accende lì la sua vita.
Il Natale è la serissima e drammatica possibilità di scendere nel mio scantinato e farvi spazio al Signore della vita. Scendere nella parte di me dove mi sento dolente o in agonia, congelato o perduto, a cercar le tracce e il respiro di Colui che è già lì.
Il grande nemico del Natale è la banalità, che nel racconto di Buzzati ha la forma del diluvio di oggetti cibo e parole. La banalità è nemica di ciò che nutre la vita. Soffoca l’amore, corrode la gioia, rovina ogni dono.
Ma il Natale è una cosa seria, come tutte le grandi cose dell’esistenza. È l’annuncio che nel fondo di me, in quella parte di me dove non scendo quasi mai, e comunque mai volentieri, Dio mi aspetta. Perché, dice Rilke in uno dei suoi scritti, «Dio ci aspetta alle radici». Ecco. Il Natale è una serissima e liberante apologia dello scantinato.
Paolo Alliata è vicario della Comunità pastorale di Santa Maria Incoronata, a Milano, e rettore del Liceo Montini, anima incontri di rilettura dei classici in chiave cristiana. I testi di questi incontri sono raccolti in alcuni libri, la registrazione si trova in rete.