Senz'obbligo, per dovere
sabato 25 giugno 2022

La concessione dello status di Paese candidato all’Ucraina può segnare una svolta nella crisi aperta nel cuore del continente. Il messaggio implicito nella decisione dei 27 Paesi dell’Unione è che Kiev è negli auspici già parte della casa comune europea, di quella costruzione politica ed economica che ha garantito pace, diritti e sviluppo al suo interno fin dal momento della sua nascita sulle macerie della Seconda guerra mondiale.

Il 24 febbraio, giorno dell’invasione russa, l’Europa non aveva legami formali né obbligazioni verso Kiev, uno Stato che fino a quel momento sembrava lontano dalla possibilità di un’adesione. Troppo grande (44 milioni di abitanti, un’estensione maggiore di quella della Francia), troppo ingombrante con il contenzioso aperto con la Russia, troppo distante dagli standard prescritti su alcuni dossier chiave, dalla corruzione alla giustizia fino alla tutela delle minoranze. Oggi tutti questi nodi restano da sciogliere (e non sarà un percorso né breve né facile), ma di fronte a una guerra che ha stravolto equilibri e sta rimescolando la geopolitica mondiale, all’aggredito che già bussava alle porte della Ue si è spalancata la possibilità di trovare un tetto sotto il quale pensare il proprio futuro. Il percorso avviato dal Consiglio europeo all’unanimità (come prescritto dai Trattati) prevede nei fatti un’accelerazione delle procedure rispetto ad altri Paesi candidati da anni (Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Albania, tralasciando ovviamente la Turchia, la cui posizione è da tempo congelata). Al di là di questioni di giustizia verso i 4 Stati balcanici, c’è un’ovvia e condivisibile priorità per l’Ucraina e, forse, anche per la Moldova.

Difficile non concordare con la scelta di estendere il mantello a dodici stelle in campo blu sui fratelli feriti, considerato anche il fatto che quasi cinque milioni di ucraini sono già entrati nei confini dell’Unione (e in Moldavia) e sono stati accolti con uno sforzo senza precedenti (dovremo essere coerenti davanti alle altre migrazioni forzate dal Sud del mondo). La domanda che aleggia senza una vera risposta è come fare per tenere fede ai migliori ideali europei nella proiezione dei confini europei a tutto il Donbass. Perché anche di questo si tratta. Le garanzie di convivenza nel rispetto della legge e della democrazia devono estendersi senza eccezione, ma oggi siamo di fronte a un conflitto che fa strame di tutto questo. Mosca prima ha fatto sapere che si tratta di una questione interna, poi il ministro degli Esteri Lavrov ha detto che la situazione ricorda la vigilia della Seconda guerra mondiale «quando Hitler unì la maggior parte dei Paesi europei contro l’Unione Sovietica». Lo stesso starebbero facendo Ue e Nato contro la Federazione Russa.

L’Europa unita non ha una vocazione imperialistica; si allarga per la richiesta di singoli Paesi che aspirano a esserne parte. La sua forza è quella di sterilizzare le conflittualità, con questo scopo è sorta alla fine di una delle peggiori tragedie dell’umanità. Oggi però deve fare i conti con uno scontro aperto, in cui ha scelto con chiarezza quale parte prendere. Per essere fedele alla sua vocazione, l’Unione europea deve essere portatrice di pace, una pace equa e che non sia una miccia accesa ai suoi nuovi confini. L’abbraccio all’Ucraina aumenta la responsabilità di mettere in campo una forte e credibile iniziativa diplomatica, coordinata con Kiev. Per quest’ultima, avere Bruxelles come punto di riferimento significa una garanzia contro quella "cancellazione dalla carta geografica" che i falchi del Cremlino hanno evocato. Ma anche un impegno ad assumere i valori che la prossima appartenenza comporta. Al futuro tavolo di trattativa Zelensky potrà sedere con il peso di un continente intero. Fare tacere le armi e mettere un argine di pace e cooperazione alla Russia è un dovere, e sarebbe la prima vittoria di una Ue proiettata anche a Est.

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