martedì 3 novembre 2015
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Per mettere a segno la sua personale rivincita e riguadagnare la maggioranza assoluta, che potrebbe anche consentirgli di modificare a suo vantaggio la Costituzione turca, facendo di lui una corrusca copia del padre della patria Kemal Atatürk, Recep Tayyp Erdogan non ha esitato ad adoperare ogni mezzo: dalla spregiudicatezza politica alla minaccia del caos, soffiando sulla paura e sull’insicurezza e contemporaneamente additando nei curdi il nemico interno da battere ad ogni costo.Un costo peraltro piuttosto elevato in termini di libertà e di diritti dell’uomo: chiudere giornali e testate televisive invisi al governo, licenziare e incarcerare giornalisti scomodi finisce fatalmente per falsare qualunque consultazione elettorale: «Anche se i cittadini turchi potevano scegliere tra reali e forti alternative politiche in queste elezioni altamente polarizzate – sottolinea l’Ocse in una nota – il rapido declino nella varietà dei mezzi di comunicazione e le restrizioni alla libertà di espressione hanno influenzato il processo e destano preoccupazione». Nondimeno, il risultato delle elezioni – al netto delle intimidazioni e degli eventuali brogli e delle violenze che la rabbia dei curdi ha innescato in varie parti del Paese – conferma come la porzione maggioritaria dell’elettorato turco, il 49,98%, abbia scelto di votare l’Akp, il partito islamico conservatore di Erdogan, confermandone il consenso anche nelle due grandi metropoli, Ankara e Istanbul, dove la modernità ha più presa e il potenziale dissenso è più ampio. Unica eccezione, Smirne, storica roccaforte dei kemalisti del Cumhuriyet Halk Partisi, dove il successo di Erdogan si è fermato al 31,7%, e comunque anche lì l’Akp è in vigorosa ripresa. Si deve, insomma, riconoscere che il responso delle urne – ancorché nutrito di odii, rancori, violenze e molta paura – è netto e va rispettato.Preme tuttavia mettere in luce due aspetti di quest’esito elettorale. Il primo riguarda i rapporti fra l’Unione Europea e la Turchia. Non è un mistero che in molte cancellerie si è silenziosamente fatto il tifo per la vittoria di Erdogan, nonostante le tante ambiguità di questo leader che è uso affidarsi più alla forza bruta del potere che alle sottigliezze della politica. A Bruxelles come a Berlino, a Parigi come a Helsinki, a Stoccolma come a Amsterdam e a Roma sono ben consapevoli che a breve termine Erdogan metterà sul piatto della bilancia le proprie condizioni: aiuti in miliardi di euro, revisione della politica dei visti in Europa per i cittadini turchi e soprattutto una decisa accelerazione nel negoziato per l’adesione di Ankara alla Ue, fermo da mesi su troppi capitoli.Sanno bene i leader europei – Angela Merkel per prima – che con quegli oltre due milioni di profughi siriani e afghani tuttora parcheggiati e ben sorvegliati in Turchia Erdogan può decidere a proprio comodo se continuare trattenerli, se lasciarli uscire in misura moderata oppure se sospingerli in massa verso le frontiere di terra della Grecia o verso le isole dell’Egeo. Dipende da quale atteggiamento l’Europa deciderà di mantenere nei suoi confronti.E qui dobbiamo esaminare – con grande realismo, ma non senza un certo disagio – la seconda questione: la caduta dei satrapi africani e mediorientali (da Saddam Hussein a Gheddafi) e la fine ingloriosa delle primavere arabe (tranne la sola fragile Tunisia), hanno purtroppo mostrato – e anche il caso della Siria non fa eccezione – come al caos e all’anarchia di un Paese frammentato e diviso dopo la caduta di un regime sia inevitabilmente preferibile il dialogo con un uomo forte (come è il caso dell’Egitto), in grado di garantire stabilità. Cosa che i libici, gli yemeniti, gli stessi iracheni, gli afghani non sono assolutamente in grado di assicurare.È una lezione amara, che contiene una verità altrettanto amara: il prezzo della stabilità si paga con un ampio deficit di democrazia. Per questo – senza troppo lasciarlo trapelare – la notte di domenica si è tirato un grande sospiro di sollievo in molte parti d’Europa. Un’Europa frantumata e divisa su tutto, dalle politiche sui migranti a quelle di bilancio, fino alle pesanti divisioni sulla crisi mediorientale, che proprio per questo ha assoluto bisogno di garanzie.Erdogan prometteva ai suoi elettori stabilità. E stabilità di rapporti chiede anche l’Europa. Chiudendo un occhio, anzi due, sul dispotismo di un leader che di fatto ha in mano molte delle chiavi del nostro futuro.
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