mercoledì 29 agosto 2012
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​Lo confesso: l’efflorescen-za trionfante dei tatuaggi sulla massa dei corpi martoriati dalla canicola è stato uno dei miei temi di riflessione in questa lunga estate di sole, che mi ha concesso brevi ma numerose sortite sulle spiagge d’Italia, dalla Sardegna alla Sicilia, dal Lazio alla Toscana. Terre diverse, ma risultati sempre identici: uomini e donne, giovani e vecchi, belli e brutti, grassi e magri, tutti sembravano avere il loro tatuaggio da ostentare, poco importa se discreto o molto invasivo. Perché questa smania di incidere la pelle ritardandone la cicatrizzazione con sostanze coloranti, o magari punturarla nelle ferite vive, sottoponendosi a ore e ore di dolorosa pazienza? Il fenomeno deve aver raggiunto una diffusione e un’intensità preoccupante se è vero che lo Stato Maggiore dell’Esercito, non più di un mese fa, ha sentito la necessità di diramare una molto puntuale direttiva «sulla regolamentazione dell’applicazione di tatuaggi da parte del personale» militare, dove si ricorda tra l’altro «che il tatuaggio venne definitivamente proibito da Papa Adriano I nel 787 durante il Concilio di Nicea».Non c’è bisogno di professarsi frequentatori della scienza dei segni, di semiotica o semiologia insomma, per ricordare che ogni segno socialmente s’impone come un significante portatore di significati: figuriamoci quello che qualcuno, a un certo punto, decide di imprimere, e spesso in modo permanente, sul suo corpo vivo. La storia del tatuaggio è del resto antichissima: e non c’è bisogno nemmeno di ricordare che si tratta d’una pratica sopravvissuta a una vicenda plurimillenaria. Vale forse la pena, invece, rammentare il giudizio che ne dava Cesare Lombroso nel 1876, nel saggio "L’uomo delinquente", laddove la consuetudine del tatuarsi veniva inclusa tra le attitudini che caratterizzerebbero l’antropologia del criminale recidivo, quale segno di regressione a uno stato ferino e primitivo. Questo per dire che, soltanto alla fine dell’Ottocento, la pratica del tatuaggio era considerata come un assoluto disvalore. Non per niente, proprio come atto supremamente anticonformistico, a partire dalla fine degli anni Sessanta, nella giovane cultura hippy e on the road, l’uso del tatuaggio comincia a diffondersi sempre più.Ma oggi? Che ne è di quel gesto di ribellione giovanilistica se ci troviamo di fronte un sessantenne incanutito e deliziosamente panciuto, che giuoca sotto l’ombrellone coi suoi nipotini, mentre mostra, tatuata sulla spalla, una pantera che ruggisce? È difficile negare che, da Andy Warhol ad Achille Bonito Oliva, le neoavanguardie abbiano vinto su tutti i fronti culturali: la body art è effettivamente diventata di massa. Come di massa è il povero immaginario che i tatuatori mettono in scena: leziosi arabeschi, cuoricini e stelle, animali esotici, insomma simbologie prêt-à-porter. C’è una differenza, però: che quel sessantenne panciuto, ventenne alla fine degli anni Sessanta, si sarebbe tatuato per distinguersi orgogliosamente da tutti gli altri, mentre oggi lo fa per sentirsi ancora più uguale e omologo di quanto non lo sia, alla ricerca dello status symbol del giorno: con lo stesso spirito con cui si corre ad acquistare l’ultimo iPhone. Fatto curioso: che l’arcaico e tribale tatuaggio segni oggi un euforico e arreso ritorno alla tribù: troppo grande l’angoscia di rimanere, anche un solo istante, fuori del mucchio?
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