giovedì 12 aprile 2012
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Caro direttore,
Luisa ha poco più di trent’anni e tre figli, due femmine, Alice di 14 anni, Alessandra di 11, e Antonio di 9 (non sono questi, ovviamente, i loro veri nomi). È una mamma rom: li ha cresciuti da sola, tra tendopoli sgomberate all’improvviso e container senza riscaldamento sistematicamente "ripuliti" dai vicini. Tra elemosina domenicale nelle piazze e frequentazione scolastica molto saltuaria. Un gruppo di famiglie che gravita intorno a Vigna Clara ha aiutato per anni il piccolo nucleo pagando un po’ di spesa, i libri di testo, le medicine, il dentista ogni tanto, la possibilità di una doccia.
 
Da anni Luisa insegue due cose: un lavoro e una casa vera, che non sia una roulotte senza neppure acqua per lavarsi. È la sua idea di normalità, ma per una "zingara" con figli a carico nella Roma del terzo millennio si è rivelata impossibile. Allora Luisa ha aspettato, con pazienza e con qualche aiuto esterno, che i ragazzi crescessero. Per poterli lasciare al "campo" senza eccessivi pericoli mentre lei cerca il famoso "impiego".
Il destino però ha deciso altrimenti. Suo marito, scappato molti anni fa in Romania dove si è risposato e ha messo su un’altra famiglia, è ricomparso l’estate scorsa. Per portarsi via i figli. Il maschio, l’unico che ha riconosciuto, l’unico che porta il suo cognome. E le ragazze a ruota. Tutti caricati in macchina e finiti nella campagna fuori Bucarest, in casa di gente sconosciuta e poverissima quanto loro, nell’inverno più gelido dell’ultimo ventennio. Luisa è andata a riprenderseli. Il suo "gruppo di aiuto", pur considerevolmente ridotto per la crisi economica, le ha mandato soldi per il passaggio auto, per i passaporti che le avevano rubato, per le provviste, per gli antidolorifici e le siringhe pulite in ospedale quando Alice è stata ricoverata per appendicite.
 
A marzo sono tornati. Con una sorpresa: Alice era stata "sposata" a un minorenne rom, per liberarla Luisa ha dovuto far intervenire la polizia. Adesso suo marito è in prigione e Alice è incinta all’ottavo mese. Non va più a scuola (fa la quinta elementare) perché «i bambini le guardano la pancia» e lei si vergogna. Ha la nausea, è debole, dovrebbe mangiare più carne. Erano d’accordo che il nascituro sarebbe stato lasciato in ospedale e dato in adozione, ma Alice all’improvviso ha cambiato idea. Il venerdì prima di Pasqua hanno fatto un’ecografia, è «una femminuccia» e la mamma vuole tenerla con sé.
Luisa è fermamente contraria, hanno litigato, hanno pianto.
 
Dice Luisa: «Alice mi ha spezzato il cuore, ho lottato per darle una vita diversa e finirà come me. Io non ho un lavoro, non abbiamo casa né mezzi di sostentamento. Un neonato costa: pannolini, latte, vestiti. È crudele da dire ma non possiamo permettercelo. E non voglio che quella creaturina faccia la vita che facciamo noi. Starà meglio con una famiglia italiana». Capisco Luisa.
 
Alice non dice niente, è una ragazzina timida e taciturna. Nella desolazione della sua vita, si aggrappa a quella «femminuccia» come unica promessa di gioia, come unico segno tangibile della sua individualità e unicità. È più contenta che sia femmina: così il padre non verrà a reclamarla. Alla sua età, giustamente, i problemi pratici sono qualcosa che in qualche modo si risolverà. A sua madre ha sussurrato: «Quello che mi è successo non è del tutto sbagliato se avrò una figlia». Capisco anche Alice.
 
Mi hanno chiesto un consiglio, non ho saputo darlo. Non ne sono capace. Vorrei poter dire loro che, anche in questo momento così difficile per tutti, la carità umana provvederà e se la caveranno per l’ennesima volta. Ma, in fondo al cuore, non ne sono sicura.
Federica Fantozzi

 

Tu capisci loro e io capisco te, cara Federica. Capisco la tua incertezza finale, che si fa domanda: riusciranno a cavarsela ancora Luisa, Alice (con i suoi fratelli) e la piccola che sta per nascere? Ma soprattutto capisco perché ci hai raccontato la storia di queste tre donne rom: madre, figlia e nipote. Donne senza terra, senza casa e senza apparente futuro: due madri che non sanno come andare avanti, ma sanno come non rinunciare ai propri figli e inseguire quel futuro che sembra non esserci; una figlia ancora non nata, ma riconosciuta viva sin dal primo istante della sua esistenza da una madre troppo giovane, che nulla, forse, riuscirà mai a sapere di biologia, di filosofia e di diritto. Ti ringrazio, cara Federica, per aver saputo evitare ogni luogo comune su di noi (solidali come sappiamo e possiamo, magari a intermittenza, spesso tra cento difficoltà…) e sul popolo del quale sono parte queste donne, con la loro vita fiera e disperata, piena di tenacia, di dolore, di rifiuto e di accoglienza, segnata di povertà e di fatica. Devo dire che, da uomo, piango soprattutto per il padre che non c’è, che non è lì a fare ciò che è buono e giusto per colei che ha reso madre e per coloro che lei e lui assieme hanno generato (ed è tristissimo ritrovarsi a pensare che in fondo è meglio che non ci sia, quel padre, visto e considerato l’incubo che ricominciano le sue apparizioni e il “mercato” che ha fatto della vita dei suoi figli). Quest’assenza di paternità è l’immagine di un vuoto più grande, che ci riguarda tutti, che insidia le nostre società prede di troppi sbilanci e sbilanciamenti, affamate di saggezza, di autorevolezza e di carità. Eh sì, capisco davvero perché parli di insicurezza, cara Federica. E capisco che dichiararla e caricartela addosso, in realtà è un modo per tentare di alleviare un po’ il peso che grava sulle tue amiche e di rendere più ampio e forte il gesto di solidarietà che tu già compi. Capisco che è una maniera per far comprendere a tutti noi – e soprattutto a coloro che, a Roma o altrove, possono intervenire – che quel gesto non riguarda soltanto un certo “gruppo d’aiuto”. Tuttavia vorrei anche dirti che io, invece, sono sicuro che il tuo saper raccontare con intensa sobrietà la storia di tre donne rom – madre, figlia e nipote-ancora-non-nata – aiuterà tanti a "vedere" un po’ meglio (senza pregiudizi e senza irenismi) e indurrà chi dispone delle leve adatte ad agire bene e con efficacia. La vita e l’amore sono una cosa seria, e il naturale, giusto eppure fragile coraggio di Luisa e Alice chiama a fiducia e a generosità.

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