martedì 6 luglio 2010
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Apparentemente il braccio di ferro fra Turchia e Israele non si presta ad alcun equivoco, nonostante il clima rovente: Ankara minaccia di chiudere lo spazio aereo ai voli militari con la stella di David e si ripromette di fare altrettanto con quelli civili se Tel Aviv si ostinerà a non presentare scuse formali (il prodromo cioè di un risarcimento) per le nove vittime di nazionalità turca che persero la vita il 31 maggio scorso sulla "Mavi Marmara", che faceva parte della flottiglia di attivisti diretta a Gaza. Diciamo apparentemente perché nonostante l’irrigidirsi di entrambi i contendenti (il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, leader della destra estrema, aveva addirittura ribaltato il quadro pretendendo le scuse da parte della Turchia, mentre il suo omologo turco Davutoglu lasciava balenare la completa rottura delle relazioni diplomatiche) la partita che i due Paesi stanno giocando è un’altra. Vediamo quale.Da almeno due anni la Turchia si sta riposizionando nel quadrante mediorientale. Forte della delusione maturata nella estenuante e inconclusa trattativa di adesione all’Unione Europea, il premier Erdogan ha fatto sua la dottrina del suo ministro-ideologo Davutoglu: nessun problema con i Paesi confinanti. Uno sguardo alla carta geografica ce lo conferma: oltre che con l’Europa, la Turchia confina con Georgia, Armenia, Iran, Iraq e Siria. Ed è infatti l’Asia Minore il quadrante geopolitico nel quale Ankara intende ripristinare quel ruolo di potenza regionale che aveva perduto fin dall’epoca della dissoluzione dell’Impero ottomano. Non è un caso che nei piani di Erdogan vi sia l’istituzione di un’unione economica e un giorno forse monetaria in un’area che va dal Mar Caspio fino ai deserti arabici, una vera e propria Middle East Union, trasparente ricalco dell’Unione Europea che punta all’integrazione economica tra Turchia, Siria, Libano e Giordania, per estendersi gradualmente fino al Marocco, al Sudan, alla Mauritania, dal Bosforo al Golfo di Aden.Di tutt’altra natura la partita che sta giocando Israele, anche perché è su altri fronti che si svolge. Uno è quello interno, e – nella più squisita tradizione dell’intricato cesello mediorientale – affianca temerariamente il tentativo di riprendere il dialogo con Abu Mazen (ieri a Gerusalemme il primo incontro al vertice fra il ministro della Difesa israeliano Barak e il premier palestinese Salam Fayyad) con la nuova ondata di insediamenti in Cisgiordania (2.700 unità abitative e altre 800 in progetto) che ricomincerà a settembre. L’altro fronte è l’Iran. Ed è questa la massima preoccupazione di Benjamin Netanyahu, che oggi viene ricevuto d nuovo alla Casa Bianca dopo il gelido incontro delle scorse settimane con il presidente Obama. Sul tavolo, l’eterna richiesta israeliana di disarmare, con ogni mezzo, la crescente tracotanza iraniana in tema di armamenti, e in particolar modo di disinnescare la minaccia nucleare di Teheran. Detto in altri termini (che probabilmente non verranno mai resi espliciti), Gerusalemme chiede il via libera a un blitz in territorio iraniano. Ma a Washington – ci assicura una fonte diplomatica qualificata – questa opzione non piace: tutte le simulazioni strategiche del Pentagono concorrono a definire l’ipotesi di un attacco all’Iran come «catastrofica». Si fa strada semmai una stretta sulle sanzioni. Non solo quelle formulate in sede Onu, ma ora anche quelle votate dal Congresso americano. Ieri Teheran ha soffiato sul fuoco diffondendo la falsa voce di uno stop ai rifornimenti di carburante agli aerei della compagnia di Stato in alcuni Paesi europei.Il quadro, come si vede, è ricco di incognite. Unica certezza: la soluzione della partita iraniana non è a portata di mano. A quella turco-israeliana invece crediamo di più: Ankara non può perdere la faccia, Israele nemmeno. Il terreno ideale per un bel compromesso, come usa in Medio Oriente.
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