giovedì 21 gennaio 2016
Se il desiderio prevale sulla legge, arbitrio non giudizio
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In Italia negli ultimi anni si è aperta una nuova fase nell’amministrazione della giustizia: con la tendenza – rivendicata dalle teorie “neocostituzionaliste” – a fare del giudice non solo il garante ma il «creatore dei diritti». Sullo sfondo di questo nuovo ruolo del giudice sta, in primo luogo, la dilatazione di ciò che si debba intendere come “diritto”. L’ampliamento della tavolozza dei “diritti” è tendenza, culturale prima ancora che giuridica, che nasce dall’esigenza di «rimediare alla stanchezza delle democrazie» e frenare la prepotenza delle regole del mercato. Ma – come dimostra in un’acuta analisi Luciano Violante ( Il dovere di avere doveri, Einaudi, 2014) – essa tende ormai a definire come diritto soggettivo (o addirittura diritto fondamentale) «tutto ciò che appare desiderabile». Giungendo a un effetto paradossale: di provocare una frantumazione individualistica della società e di favorire le tendenze egoistiche del singolo cittadino, che sono la sconfinata prateria in cui il mercato può galoppare senza briglie. Tipica espressione di questa tendenza è la pratica dell’utero in affitto. E, per rimanere in Italia, la sentenza 162 del 2014 della Corte costituzionale che riconosce la possibilità della coppia anche sterile di ricorrere alla fecondazione eterologa, ancorandola alla «fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi» e al diritto «incoercibile» di diventare genitori. Questa sentenza è esemplare di quella che Violante chiama la «insaziabilità» dei diritti fondamentali: perché il diritto alla genitorialità, non certo scritto in Costituzione, viene fatto discendere da princìpi di carattere generale (diritti inviolabili dell’uomo, principio di uguaglianza, tutela della famiglia e della maternità, di cui agli articoli 2, 3 e 31), dando di essi un’interpretazione talmente opinabile e creativa da sconfinare nella discrezionalità politica che, in democrazia, dovrebbe essere il “giardino proibito” riservato al Legislatore. A dare forza a questa nuova “teoria dei diritti” c’è poi l’inarrestabile espansione delle fonti del diritto: non solo le leggi e le Costituzioni nazionali ma, sempre più, anche le Convenzioni internazionali e la giurisprudenza delle Corti europee. Si noti che questa dilatazione non è solo frutto di elaborazioni dottrinali, ma ha trovato esplicito riconoscimento anche in leggi nazionali. Si pensi, ad esempio, all’articolo 35 ter inserito (nel 2014) nel nostro ordinamento penitenziario: secondo cui il giudice di sorveglianza, nel valutare, a fini risarcitori, la sussistenza di «trattamenti inumani e degradanti» (art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo) deve far riferimento agli orientamenti giurisprudenziali della Corte di Strasburgo. Con il che si assiste a un singolare capovolgimento: per cui la maggioranza degli elettori, rappresentata dal Legislatore, rinuncia a definire contenuti e contorni di un diritto fondamentale, lasciando questo compito ai giudici di una Corte. Il punto è che le Convenzioni internazionali si limitano, perlopiù, ad affermare princìpi, senza che sussistano norme giuridiche che ne disciplinino l’esercizio e ne definiscano il limite. Ma se si attribuisce natura giuridica a questi princìpi e se si ritiene che debba essere il giudice a disciplinarli e a declinarli in diritti, ecco allora che la nuova definizione del giudice come «creatore di diritti» ha una sua logica. Se a tutto ciò si aggiunge che l’affermazione dei princìpi (contenuta nelle varie Carte) non è sempre chiara e univoca ma appare spesso generica e (a volte) contraddittoria, allora si dovrà riconoscere che il giudice, chiamato a misurarsi con un sistema di fonti sempre più intricato, eserciterà, nella scelta della fonte e nella modulazione del diritto, una discrezionalità enorme. Le opzioni che avrà di fronte – privilegiare questa o quella fonte, darle questa o quella interpretazione – saranno così ampie da trasformare la discrezionalità, giustamente riconosciuta al giudice nell’applicare la legge, in vero e proprio arbitrio affidato quasi esclusivamente alle sue preferenze e ai suoi orientamenti culturali. Il caso più eclatante è la vicenda “Stamina”: per cui una Procura ha incriminato per associazione a delinquere ed altri reati i responsabili della fondazione che offriva quel trattamento e, contemporaneamente, un Tribunale ordinava di proseguire la cura per garantire il «diritto alla salute e alla vita individuale» e per evitare che venisse soffocato «il diritto all’autodeterminazione» e il «fondamentale diritto umano a effettuare scelte lecite più consone alle esigenze della propria sfera individuale». Verrebbe da dire: ecco a cosa porta l’idea che ogni desiderio sia un diritto! Ma c’è un ultimo punto su cui dobbiamo riflettere: se l’operazione che il magistrato è chiamato a compiere nell’affermazione dei diritti fosse veramente quella che abbiamo descritto, allora si dovrebbe inevitabilmente riconoscere che il suo compito è cosa completamente diversa da quella del «giudice della Costituzione» che avevano in mente i nostri Padri costituenti. A questo punto, tutti i presìdi posti dalla Costituzione a tutela dell’indipendenza della magistratura – reclutamento burocratico tramite concorso, autogoverno attraverso un Csm eletto per due terzi dagli stessi magistrati, inamovibilità – non avrebbero più senso. L’architrave dell’indipendenza dei magistrati è il capoverso dell’articolo 101 della Costituzione: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Ma se la legge non conta più nulla, a cosa serve l’indipendenza dei giudici? Perché dei giudici, cui venga attribuito il potere di compiere scelte discrezionali che tipicamente appartengono alla politica, dovrebbero essere privi di legittimazione democratica? Ci sono grandi democrazie in cui il diritto giurisprudenziale conta più della legge. Ma in quelle democrazie i pubblici accusatori sono elettivi e i giudici nominati dal governo. Il modello di giudice che piace tanto ai fautori della “teoria dei diritti” prima o poi, inevitabilmente, dovrebbe essere collegato (direttamente o indirettamente) con il principio della sovranità popolare. Come non accorgersene? Si potrebbe obiettare: ma perché non accettare l’elettività? Non ho dubbi nel rispondere: perché la realtà è diversa dai sogni. Come idea astratta, l’elettività di un magistrato raggiunge la perfezione. Cosa c’è di più democraticamente puro di un popolo che sceglie i suoi magistrati, affidando ai migliori e ai più saggi il compito di vigilare sulle proprie libertà? Ma la realtà ci dice che le forme concrete con cui la politica si realizza farebbero in modo che la maggioranze politiche del momento controllerebbero anche l’elezione dei magistrati: imporrebbero i loro candidati, quelli più pronti a promettere e servire. Inoltre, nella nostra civiltà dell’immagine, in cui l’esposizione mediatica vale più del merito, i meccanismi di formazione del consenso elettorale premierebbero non i migliori ma i più capaci ad apparire, a farsi sentire. E, per un magistrato, apparire e farsi sentire significa dare pubblicità al proprio lavoro in forme spettacolari che quasi mai sono compatibili con il rendere giustizia. Sono certi di volere proprio questo i teorici del «giudice che crea i diritti»? (2 – fine)
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