sabato 1 febbraio 2014
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Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams, El Hadji Ababa, Samuel Kwako, Jeemes Alex: questi nomi non li avete letti sulle pagine dei giornali di ieri, né li avete sentiti nei tg o in qualche talk show. Luci e ribalta sono stati tutti per il processo a Amanda Knox e Raffaele Sollecito, condannati dalla Corte d’appello di Firenze per l’omicidio di Meredith Kercher. Dirette tv, ressa di troupe, assalto ad avvocati e pm, sfilata di "esperti". Niente di niente per i sei immigrati uccisi dalla camorra a Castel Volturno il 18 settembre 2008. Eppure proprio giovedì sera un’altra corte, quella «suprema» di Cassazione, ha condannato definitivamente all’ergastolo il boss dei "casalesi" Giuseppe Setola e altri tre componenti del gruppo stragista che nel 2008 seminò terrore e morte nel Casertano, con 17 morti in appena sette mesi. Tra loro i sei giovani africani colpiti nel mucchio.Una notizia importante, questa condanna. Una doppia notizia importante. Lanciata senza clamore da due soli flash d’agenzia e, ieri, lasciata in un angolo praticamente da tutti (e anche da noi non "vista" come meritava e merita). Eppure, allora, quella strage finì su tutte le prime pagine, soprattutto dopo la rivolta degli immigrati contro la violenza camorrista ma anche contro lo sfruttamento in cui vivevano. L’Italia scoprì Castel Volturno, 10mila abitanti locali e altrettanti extracomunitari. Lo scoprirono anche le istituzioni nazionali che proprio dopo quel terribile omicidio di giovani innocenti decisero di usare tutti gli strumenti a disposizione, esercito compreso. Per le strade comparvero i parà della Folgore, affiancando i migliori investigatori anticamorra. "Modello casertano" raccontato a lungo sulle pagine dei giornali, con successi a ripetizione, fino all’arresto non solo della banda Setola, ma anche dei superlatitanti Iovine e Zagaria. Ora dopo "appena" cinque anni arriva la condanna definitiva per quella strage, tutti colpevoli con l’aggravante dell’odio razziale. Un ottimo lavoro delle Forze dell’ordine e della magistratura, a dimostrazione che la giustizia non è solo un lontano miraggio, non è solo polemica o sterile occasione di scontro. Ed è anche questa un’importante notizia. Giustizia e in tempi (relativamente) brevi. Ma ormai quei fatti sembrano non interessare più e con essi il destino degli immigrati di Castel Volturno ritornati nell’ombra.Per loro, per i "fratelli" uccisi le luci si sono spente. Così come per Joseph Ayimbora, che gravemente ferito si salvò sotto i cadaveri degli amici e non si tirò indietro diventando testimone fondamentale dell’accusa, ma che non ha avuto giustizia perché un improvviso male se l’è portato via nel 2012. No, non fanno notizia. Lo fanno invece in prima serata tv o nelle "arene" domenicali i casi tra il rosa e il nero, tra sangue e misteri, magari tirando in ballo famiglie e bambini. Si dice che è quello che vogliono lettori e teleutenti. E che non c’è altra scelta. Ma è proprio così? In occasione dell’assoluzione di Amanda e Raffaele, il 3 ottobre 2011, tutti i giornali si riempirono in prima pagina di titoloni.Tutti tranne Avvenire che scelse di aprire il giornale col dramma del crollo di una palazzina di Barletta che aveva ucciso quattro oparaie e la quattrodicenne Maria. Morte di lavoro nero per «3,95 euro l’ora», come titolammo il giorno dopo dedicando alla tragedia nuovamente la prima pagina. Con un editoriale di Marina Corradi – "Titoli a picco", proprio come ri-titoliamo oggi – che rifletteva appunto sullo spazio dedicato dai media alle due notizie, fatti drammaticamente veri e fatti trattati quasi da fiction. Sono passati più di due anni e ancora una volta sono proprio questi ultimi a riempire di nuovo l’informazione. Ormai sempre più attenta allo spettacolo, ai personaggi, a prescindere da quello che raccontano. È il caso delle ormai ricorrenti interviste "esclusive" ai collaboratori di giustizia, da Schiavone a Scarantino, con rivelazioni clamorose spacciate per verità e nessuna verifica. Ma qual è davvero la realtà da raccontare, quella delle luci da fiction o quella della concreta vita quotidiana, fatta di drammi ma anche di splendide storie di impegno? La nostra bellissima professione pretende responsabilità oltre che libertà. Richiede scelte, magari anche difficili, per accendere luci dove luce non c’è, dove luce è stata troppo presto spenta, dove luce più serve.
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