domenica 11 agosto 2013
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La temperanza è una parola che sta uscendo dal nostro vocabolario civile. Da quello economico è uscita già da molto tempo, per lasciare spazio al suo opposto. La usiamo ormai per le matite, per il clima, per le scale musicali o per il clavicembalo di Bach. Cose anche importanti, ma che non mettiamo al centro della nostra vita civile né del patto sociale. Insieme alla temperanza è l’intero lessico dell’etica delle virtù che inclina a scomparire dalla grammatica della vita in comune, e le conseguenze politiche, civili ed economiche di questa eclissi sono tristemente ormai note a tutti. La nostra civiltà (almeno quella occidentale) rischia di non comprendere più il messaggio di vita buona contenuto nell’etica delle virtù. E ciò dipende da diverse ragioni, da due in modo particolare. La prima è la scomparsa della categoria di educazione del carattere, a cominciare dall’educazione dei nostri bambini. Ciò che è naturale e spontaneo diventa immediatamente buono, senza bisogno di correggere e orientare comportamenti o inclinazioni spontanei, ma non buoni. Conosco genitori che in nome di non specificate teorie pedagogiche neo-roussoniane lasciano tranquillamente che i loro figli non li chiamino mamma o babbo, ma Luisa e Marco. "Viene loro naturale", argomentano di fronte alle mie perplessità, "perché forzarli?!". L’etica della virtù vive invece di una tensione dinamica tra natura (tutti siamo capaci di virtù) e cultura (c’e però bisogno di esercizio, disciplina e volontà per diventare ciò che già potenzialmente siamo). Per questo grandi coltivatori - spesso anche inconsapevoli - dell’etica delle virtù sono i veri atleti e i veri scienziati. La seconda ragione è il non saper più riconoscere anche un valore nell’esperienza del limite. E se non si è capaci di vedere la positività del limite è impossibile capire e apprezzare le virtù, in particolare quella della temperanza, che consiste proprio nel valorizzare il limite che, come la siepe sul leopardiano colle dell’Infinito, mentre esclude l’orizzonte apre gli «interminati spazi al di là da quella». Forse la scrittura su tavolette di argilla nacque in Mesopotamia perché un messaggero del signore di Uruk non riusciva a parlare. Di temperanza non si parla più, ma molti, moltissimi, sono in mezzo a noi i cattivi frutti della sua carestia: dalla distruzione dell’ambiente agli stili di vita dei nuovi ricchi e potenti, da come parliamo, scriviamo email, fino alle tragedie famigliari e alle infinite infelicità troppo spesso causate da uomini e donne non più educati al dominio di sé e al controllo delle proprie passioni, cioè alla temperanza. La temperanza è stata anche una grande virtù economica delle generazioni passate. Essa ha orientato il consumo e soprattutto ha generato quel risparmio che ha consentito lo sviluppo economico del secondo dopoguerra. Una virtù che informava anche la vita degli imprenditori (non dei redditieri, che non mi stancherò mai di distinguere dagli imprenditori e di individuare nel loro proliferare la prima malattia di ogni società decadente), che pur conoscendo l’abbondanza, educavano i propri figli e se stessi al buon uso delle cose e a una certa sobrietà che poteva non umiliare i poveri. La virtù della temperanza mi porta a non consumare oggi una parte di reddito per averlo a disposizione, io e la mia famiglia, domani, e per permettere che altri miei concittadini possano usare per investimenti quella ricchezza durante la mia astinenza. È significativo che la teoria economica classica utilizzasse la stessa parola "astinenza" per giustificare il risparmio, e anche per il digiuno e per la castità, a ricordarci che questi tre fenomeni erano tutti figli di Madonna temperanza. La nostra cultura economica che poggia sul maggior consumo possibile qui e ora, meglio se a debito, ha invece bisogno del vizio dell’intemperanza (intreccio di avarizia e gola) per potersi auto-alimentare. La natura della virtù della temperanza si comprende se pensiamo che viene sviluppata in un mondo caratterizzato dalla scarsità assoluta di risorse. È bene non abusare dei beni, poiché ciò che io consumo come superfluo è quanto manca all’altro come necessario. Tutto l’insegnamento dei Padri della Chiesa sull’uso dei beni e sulla povertà va letto e compreso in questo contesto di risorse limitate e di rapporti economici come "giochi a somma zero". Coma va anche inserita in questo orizzonte di scarsità l’etica contadina imperniata sulla virtù della temperanza, compresa quella sua tipica fioritura che fu il movimento delle casse rurali, soprattutto nel Nord-Est italiano (non è certamente un caso che il Trentino Alto Adige sia oggi all’ultimo posto in Italia per quota di popolazione vittima di quella grave mancanza di temperanza che si chiama azzardo!). Nel Novecento, con la seconda rivoluzione industriale, pensammo che fosse terminata l’era della scarsità e fossimo approdati nell’eden della infinita riproducibilità dei beni. E si iniziò a guardare il mondo come un luogo di risorse potenzialmente illimitate. Da qui il declino della temperanza come virtù. Peccato che questa stagione dell’illimitatezza sia durata poco più di un baleno, perché prima l’ambiente, poi le energie e l’acqua, e quindi il deterioramento dei capitali civili, relazionali e spirituali ci hanno via via mostrato altri limiti non meno stringenti e gravi di quelli dell’età della scarsità di merci private e di abbondanza di capitali collettivi. Infatti oggi i nuovi limiti sono soprattutto limiti sociali e globali, per i quali sarebbe necessaria un’immediata riscoperta della virtù della temperanza, che andrebbe posta a nuova virtù sociale ed economica. È ormai improcrastinabile una interiorizzazione del valore del limite, e soltanto una nuova etica delle virtù può farlo, poiché ogni interiorizzazione richiede il saper attribuire un valore intrinseco alle cose al di sopra del calcolo utilitaristico costi-benefici che oggi domina ogni ambito della nostra cultura. Ma mentre ieri esisteva un chiaro rapporto tra la mia temperanza e il mio benessere personale e il nostro bene comune, oggi nell’era della complessità questo nesso si è offuscato. Non è più immediato associare l’uso dell’aria condizionata nella mia abitazione all’aumento della temperatura nelle nostre città (e al successivo ulteriore aumento di uso di aria condizionata, in spirali da cupi scenari futuri). La sola razionalità economica non aiuta in questa presa di coscienza (anzi ci fa sprofondare), perché ci sarebbe bisogno del registro logico della virtù che ci porta a fare una azione perché ne abbiamo interiorizzato il suo valore intrinseco. Se quindi non de-mercantizziamo la nostra società, se cioè non liberiamo dalla logica dei prezzi e degli incentivi importanti aree di vita civile oggi da essi occupate e colonizzate, capiremo sempre meno il valore della sobrietà, dell’astinenza, del controllo di sé, e sempre meno lo capiranno i nostri bambini. Infine, ieri come oggi, senza temperanza non c’è condivisione dei beni, non c’è la gioia della comunione. Se non ci educhiamo continuamente a delimitare i confini dell’io, condivideremo con gli altri soltanto le briciole di pasti intemperati. Ma così non sperimentiamo la vera fraternità, che è il frutto di scelte costose di chi sa ridurre le ragioni e le regioni del "proprio", per edificare quelle del "nostro", e quelle di tutti.​​​​​​​​
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