venerdì 3 agosto 2012
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Dati ed osservazioni circolate recentemente sui suicidi in Italia, in particolare per quanto riguarda quelli perpetrati in carcere, o da pare di imprenditori in crisi e lavoratori disoccupati, offuscano il quadro generale di riferimento, che vede l’Italia, assieme ad alcuni altri Paesi del sud europeo e del centro America, in una posizione decisamente meno preoccupante rispetto al resto del mondo. Tra i 28 suicidi per 100.000 abitanti della Corea del sud ed i nostri 4,9, passando per i 19,7 del Giappone, i 10,5 degli Stati Uniti ed i 9,1 della Germania (secondo i dati dell’Ocse del 2009) corre una bella distanza, tale da risollevare il livello della nostra autostima, trattandosi di uno dei pochi record positivi tra i non pochi negativi che l’Italia riesce a detenere nel contesto internazionale. Anche gli andamenti temporali sono incoraggianti per noi, visto che tra 1995 e 2009 in Italia si è registrato un calo del 26%, e nei paesi Ocse del 10%. Ma il togliersi la vita, anche se si tratta di un evento relativamente raro, è comunque un avvenimento grave e drammatico, sul quale è giusto interrogarsi in maniera critica. Dai dati ufficiali nazionali risulta che, su 3.101 tentativi di suicidio nel 2010, 3.048 sono andati a buon fine; in 1.100 casi la causa attribuita era una malattia psichica conclamata, in 1.107 casi motivi ignoti e in 187 motivi economici; in 2.399 casi si è trattato di uomini e in 649 di donne; e in 1.038 di persone sopra i 65 anni. Cercando di uscire dalla spirale interpretativa della malattia psichica, tanto presente nei dati ufficiali oggi come nel passato, ma sicuramente fuorviante (come ad esempio accade per altri versi nell’ambito delle cause di morte naturale, dove spicca l’arresto cardiaco solo perché altre patologie non vengono diagnosticate), è necessario guardare piuttosto ai fattori di natura sociale, che fanno da contorno sia al disagio psichico che ai tentativi di togliersi la vita. A questo proposito si può dire che due sono gli elementi sociali principali di cui il suicidio ci parla e che dovremmo analizzare approfonditamente. Innanzitutto, la solitudine, e in particolare quella delle persone anziane, in un contesto di drastico indebolimento delle relazioni intergenerazionali. Questo fattore spiega in gran parte la frequenza dei suicidi nell’età più avanzata ed in chi si trova in condizioni di abbandono, per malattia, solitudine o internamento in strutture chiuse come il carcere. Segnali dell’aggravamento delle condizioni di solitudine non mancano nella ricerca sociologica. Il 18,3% degli anziani si sente distante dalle persone di altra generazione (rispetto al 7,8% del 2002). La solitudine si configura oggi come una delle povertà immateriali più importanti, in una situazione in cui il 35% delle donne ed il 26% degli uomini sopra i 64 anni vivono soli. Se non saremo capaci di ridare anima alle nostre comunità di vita, riempiendo di nuovi significati le relazioni ormai troppo spesso sfilacciate delle nostre città, delle nostre famiglie e dei nostri luoghi di lavoro, rischiamo di assistere, se non a una crescita dei suicidi, quanto meno al consolidamento di una deriva negativa di disagio, di cui l’aumento del consumo di antidepressivi del 114% tra il 2001 ed il 2009 è il segnale più evidente. In secondo luogo, non va trascurato un altro fattore importante, quello dello stress da lavoro, visto anche che i suicidi ufficialmente legati a motivi economici, pur essendo poco numerosi, si sono più che raddoppiati dagli anni 90 ad oggi. Non può passare inosservato, a questo proposito, che l’80% dei lavoratori europei dichiara di lavorare in fretta e sotto la pressione delle scadenze (secondo dati della Fondazione di Dublino). Ed anche che gli obiettivi legati al guadagno e alla soddisfazione economica hanno da tempo incrinato le motivazioni culturali e sociali dell’impegno lavorativo in molti ambiti, pubblici e privati. Certo occorre lavorare per guadagnare quanto necessario per vivere, ma anche in tempo di crisi economico finanziaria e di difficoltà delle famiglie, o forse proprio in simili periodi, è necessario non perdere di vista il valore sociale del lavoro, che non può essere confinato in un ambito economicistico, e che va ricondotto alla sua funzione di riferimento sociale e di fattore di integrazione comunitaria per ciascun lavoratore. In questo senso anche il precariato lavorativo dei giovani prepara tempi molto difficili dal punto di vista della coesione sociale. Non sfugge dunque la necessità di guardare a fenomeni come quello del suicidio come a segnali, anche se deboli in Italia purtuttavia importanti, di allarme rispetto a quella anomia, di cui già il sociologo francese Emile Durkheim nel 1897 parlava, in contrapposizione alle letture tutte psicologiche e individualistiche del fenomeno.
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