Lavoro, cosa insegna l’indagine su Dhl
martedì 8 giugno 2021

La presunzione d’innocenza vale anche per le imprese e i loro vertici. Tanto più quando un’indagine si incentra su questioni fiscali, economiche e organizzative, che presentano sempre qualche margine di interpretazione delle norme. Dunque nessuna sentenza anticipata di colpevolezza nei confronti di Dhl, accusata ieri dai pm di Milano di frode fiscale operata tramite cooperative e consorzi che, secondo i sospetti dei magistrati, fungono da «meri serbatoi di manodopera». Tuttavia, l’importanza della multinazionale sotto inchiesta e il ricorrere di alcuni tratti 'tipici' della somministrazione irregolare di lavoratori, con il loro presumibile sfruttamento, non possono essere ignorati e anzi offrono l’occasione per cercare di illuminare meglio un tratto buio del nostro mercato del lavoro.

Dhl, infatti, non è una società qualsiasi ma il leader mondiale della logistica, come orgogliosamente ricorda nel suo sito web. Soprattutto è particolare il suo azionariato, controllato dal 2002 dal colosso Deutsche Post, le Poste tedesche, a loro volta sotto il controllo del governo di Berlino. E, come ogni grande azienda tedesca che rispetta la legge sulla cogestione, la

Mitbestimmungsgesetz, Dhl ha un Consiglio di gestione (come il nostro Cda) e un Consiglio di sorveglianza, nel quale siedono in numero paritario azionisti e rappresentanti dei lavoratori, con il compito di sorvegliare e indirizzare appunto le attività gestionali. Insomma, un gruppo 'blasonato' di uno Stato fratello, dal quale tutto ci si potrebbe attendere tranne che anche solo il sospetto di una frode fiscale e un utilizzo illecito della manodopera in un altro Paese dell’Unione Europea. Pur in attesa del giudizio che non spetta a noi anticipare, si può dire che non si tratta semplicemente dell’'incidente' di un’inchiesta penale, quanto di un imbarazzante caso diplomatico, proprio all’indomani dell’intesa al G7 sulla tassazione minima delle multinazionali.

C’è però dell’altro, oltre alla presunta frode fiscale. Per dirlo con le parole dell’accusa: «La società committente (Dhl appunto) abusa dei benefici offerti dal sistema illecito, neutralizzando il proprio cuneo fiscale mediante l’esternalizzazione della manodopera e di tutti gli oneri connessi. Ciò comporta l’utilizzo di fittizi contratti d’appalto per prestazioni di servizi che, invero, dissimulano l’unico, reale oggetto del negozio posto in essere tra le parti, ossia la mera somministrazione di personale effettuata in violazione delle norme che ne regolamentano la disciplina».

Tradotto, significa che il gruppo tedesco, per elevare il suo margine di profitto, avrebbe utilizzato nei propri magazzini lavoratori formalmente assunti da consorzi in appalto – «uno schermo di ben 23 cooperative, 20 delle quali con la medesima sede fiscale » – ma in realtà eterodiretti dalla stessa Dhl. Che avrebbe imposto tariffe irrealistiche a tali cooperative, alle quali non restava altro che frodare lo Stato non versando l’Iva dovuta e parte dei contributi previdenziali di lavoratori sottopagati rispetto ai contratti nazionali, sottraendosi infine ai controlli grazie a cambi di denominazione e trasferendo il personale da una società all’altra. Dhl ha dichiarato che «fornirà agli inquirenti tutta la collaborazione necessaria per chiarire in modo tempestivo e soddisfacente la propria posizione, ritenendo di aver sempre operato nel pieno rispetto della normativa fiscale italiana».

Ma – sempre in attesa del giudizio – la vicenda mostra comunque quanto sia diffuso (e pericoloso) il subappalto a cooperative spurie – come recentemente il clamoroso caso della Ceva – rispetto alle quali neppure le novità legislative e i tavoli aperti con aziende e prefetti sembrano aver scongiurato gli illeciti e lo sfruttamento dei lavoratori. Oggi che ancora si discute di come regolamentare la materia nel Pnrr, questa indagine offre allora due indicazioni preliminari importanti. La prima: vanno rafforzati e non allentati i meccanismi che rendono responsabili i committenti di quanto avviene nelle società appaltatrici. La seconda: l’appalto esterno andrebbe sempre proibito per le attività core, tipiche e centrali, di un’azienda. Per non arrendersi alla logica del profitto illecito e della sotto-tutela dei lavoratori.


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