giovedì 5 giugno 2014
Perse 120mila fabbriche in 13 anni. Le ricette anti-declino
di Diego Motta
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L’Italia è una terra piena di cattedrali (industriali) nel deserto. Eppure ci sono già le condizioni per immaginare un futuro diverso dentro le "nuove" fabbriche. Che sia in corso un lungo e doloroso addio ai vecchi modelli produttivi, lo ha confermato ieri il Centro studi di Confindustria: 120mila stabilimenti scomparsi tra il 2001 e il 2013, con un peggioramento ulteriore nel biennio orribile della Grande Crisi. L’infinita sequenza di capannoni dismessi che accoglie chiunque attraversi aree industriali da Nord a Sud non è affatto una novità recente: interi settori, dagli elettrodomestici alle costruzioni, sono stati cancellati o hanno subito forti ridimensionamenti e imprese simbolo del made in Italy sono state spazzate via prima dalla globalizzazione e poi dalla recessione. L’elenco degli errori è impressionante: prima di esplorare la via virtuosa dell’export (che ha salvato almeno in parte il sistema Italia negli anni della contrazione) il clamoroso abbaglio strategico di tanti imprenditori (oggi emulati da alcune multinazionali) è stato quello di abbandonare territori e comunità di riferimento per delocalizzare all’estero, quasi fosse possibile riprodurre in toto altrove il successo ottenuto in patria. A che scopo? Abbassare i costi e alzare i profitti. Miopia imperdonabile. Poi sono arrivate la sfiducia generalizzata, la paura del futuro, l’incapacità di crescere al momento giusto: tutti fattori che hanno impoverito la nostra industria e hanno aperto la strada all’emergenza disoccupazione.
I numeri diffusi da Viale dell’Astronomia sono impressionanti: negli ultimi sei anni la produttività è rimasta ferma mentre il costo del lavoro è salito del 20%, a un aumento del 36% a livello globale dei volumi prodotti ha corrisposto negli ultimi 13 anni un contemporaneo crollo del 25% del nostro Paese. Senza un mercato nazionale all’altezza delle performance dei mercati esteri e con una stretta sul credito fortissima, il quadro ha assunto aspetti drammatici, con una diminuzione del 5% della produzione manifatturiera all’anno. Il deserto si vede e si tocca con mano, ma almeno adesso si è aperto il tempo del ripensamento, culturale e politico, sulle ragioni del nostro declino. Perché la fabbrica in Italia ha un destino tutt’altro che scritto. Conta relativamente il sorpasso operato ai nostri danni da Brasile e India nella classifica dei Paesi manifatturieri, visto che l’Italia (oggi ottava) non ha nulla da invidiare alle nuove potenze industriali. Basta vedere cosa sta succedendo proprio nei luoghi di produzione che stiamo dando per morti. È lì che si sta organizzando la controffensiva.
A Torino hanno chiuso centinaia di imprese Fiat-dipendenti, che prosperavano negli anni Settanta, e sono cresciute aziende leader di nicchia, nella componentistica e nel design, abili nel trovare interlocutori di primo piano all’estero. Nel Nord Est, i distretti dell’abbigliamento hanno creato scuole d’eccellenza per non perdere i giovani talenti e tornare a essere attrattivi per i grandi marchi stranieri, mentre nel Centro Italia il gioco di squadra tra le Confindustrie di Prato, Pistoia e Lucca dimostra che anche le associazioni di impresa hanno capito che l’unione fa la forza, almeno nella difesa delle produzioni locali. Nel Mezzogiorno i progetti di rilancio coinvolgono in modo del tutto inaspettato aziende del farmaceutico e della logistica, start up dell’agroalimentare e imprese turistiche. Taranto, Piombino, Termini Imerese sono stati i simboli ultimi della deindustrializzazione all’italiana, che ha coinvolto tutti i livelli e tutti gli attori sociali.È stato ed è quello l’emblema della fabbrica che non c’è più: perché non ha saputo innovare per tempo, perché ha preferito le scorciatoie della speculazione (ambientale o finanziaria, non importa) alla via dritta del mercato e del rispetto delle regole. Fabbriche così sono ormai fabbriche fantasma, ma vi resta dentro, spesso inespresso, tutto il valore delle persone: è capitale umano, quello vero.
Operai specializzati che hanno rilevato stabilimenti messi in vendita dalle vecchie proprietà, manager e ingegneri che hanno attivato nuove linee di produzione (e di business) imprenditori che hanno avuto il coraggio di scommettere su una buona idea.Enrico Moretti, economista dell’Università di Berkeley che ha udienza presso la Casa Bianca, sostiene che saranno «le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi le nuove fabbriche del futuro» e certo questa è una previsione che ha il merito di guardare molto al di là dell’oggi. Nel frattempo, ha suggerito Giuseppe Berta, storico dell’industria, tutto questo «non rappresenta l’alternativa a mantenere un’attenzione vigile verso la manifattura intelligente. Laddove c’è un maggior livello di conoscenza e la manodopera è professionalmente preparata, la media impresa in particolare si è rivelata una carta vincente».Quel che è già cambiato, in molti casi, è la capacità maniacale di organizzazione dei gruppi industriali più evoluti, che hanno saputo tradurre in Italia le lezioni di produttività giapponesi, scandinave e tedesche. Si tratta ancora di casi isolati, ma le eccellenze non mancano.
«Questo Paese ha le potenzialità per farcela» ha spiegato il direttore del centro studi di Viale dell’Astronomia, Luca Paolazzi. Nella strategia anti-declino, serve innanzitutto quello che è mancato nell’ultimo decennio: una politica industriale degna di questo nome. Scelte di governo che dicano, senza paura, su quali settori strategici il Paese e le sue imprese vogliano investire nei prossimi venti, trent’anni. C’è di più: il "manifatturiero intelligente" non potrà non essere accompagnato da un vero "terziario avanzato". Industria tedesca con servizi britannici, per intenderci. Non siamo lontani da questo, nonostante tutto. Ricostruire cattedrali (industriali) non sarà un problema e forse sta già accadendo. L’importante è non affrontare il deserto da soli.
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