venerdì 8 marzo 2019
La strada della nuova «tigre» asiatica porta più investimenti e accoglienza. Restano soprusi, violenze e diritti negati. Ma la lotta alla povertà è un obiettivo
A Dacca, capitale del Bangladesh, la ripresa ha portato benessere, ma restano ampie fasce di povertà

A Dacca, capitale del Bangladesh, la ripresa ha portato benessere, ma restano ampie fasce di povertà

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Con il voto del 30 dicembre scorso il Bangladesh ha visto confermato al potere il partito nazionalista di tendenze islamiche moderate Awami League, guidato dalla signora Sheikh Hasina Wazed, che ha così ottenuto il quarto mandato (il terzo consecutivo) a condurre il governo. All’Awami e ai suoi alleati sono andati il 90% delle preferenze e 288 dei 300 seggi da assegnare nel Parlamento di Dacca che ne ha 350 complessivi. Al principale gruppo d’opposizione, il Bangladesh Nationalist Party, entrato in lizza solo dopo la scarcerazione negli ultimi giorni di campagna elettorale del suo leader, la signora Khaleda Zia, sono andati solo sette seggi.

Un risultato quasi plebiscitario per Hasina, anche se sembra mortificare la democrazia bengalese relegando gli avversari in Parlamento al ruolo di comparse, con 20mila oppositori incarcerati e nega voce e visibilità a gruppi politici e religiosi a lei avversi. Tuttavia un risultato che garantirà al Paese stabilità e un Pil di pari livello se non superiore di quello del 2018, cresciuto del 7,8%, aprendo così ulteriori prospettive di benessere e occupazione per i bengalesi, nonostante oggettive difficoltà e persistenti discriminazioni, e nonostante il fardello di un milione di musulmani Rohingya in fuga dal Myanmar, la cui accoglienza ha però garantito a Dacca apprezzamento accompagnato da ulteriori aiuti e investimenti. Tutti necessari, in un Paese in crescita netta, per molti la prossima 'tigre' dell’Asia.

Basti considerare il suo export, salito dall’indipendenza da zero a 35,8 miliardi di dollari nel 2018. Un dato che emerge ancora più netto se confrontato con quello del Pakistan, di cui il Bangladesh fu parte orientale fino al 1971 e le cui esportazioni hanno avuto un valore di 24,8 miliardi di dollari lo scorso anno. Il reddito pro-capite è oggi pressoché uguale a quello dei pachistani, nonostante il consistente vantaggio iniziale di questi ultimi. Altro dato di rilievo il valore complessivo dell’economia, che dagli attuali 180 miliardi di dollari è previsto arrivi a 322 entro il 2021. Un dato che è insieme riflesso e ragione della crescita è quello demografico. I bengalesi che popolavano il Pakistan Orientale all’indipendenza erano 42 milioni, contro i 33,7 del Pakistan Occidentale. Oggi la situazione si è invertita, con 170 milioni di abitanti per il Bangladesh e 210 per il Pakistan. Con una mortalità infantile ridotta e una speranza di via di sei anni maggiore dei pachistani, il Bangladesh ha anche un’occupazione femminile molto più numerosa e meno sfruttabile.

Quali le ragioni di tale vantaggio attuale su un Paese che per il Bangladesh è inevitabilmente un termine di paragone? Si potrebbe dire: per la coscienza che lo sviluppo nazionale è sentito come priorità e che le altre (incluso potere e ricchezza delle élite) non possono essere garantite a suo discapito. Quindi anche un sistema per molti repressivo ma che impedisca a estremismi di varia origine di acquisire un’influenza determinante e destabilizzante risulta funzionale, solleva poca reazione, mentre in Pakistan decenni di regimi militari non sono riusciti a impedire che tribalismo e estremismo tenessero in ostaggio un Paese che nel frattempo si è dotato di un esercito formidabile e dell’atomica mentre il debole Bangladesh accoglieva investimenti e non si è mai posto in competizione armata con i pur ingombranti vicini indiano e birmano.

Se l’islam, viene visto perlopiù come un fattore di crisi in Pakistan, così non è per il pure musulmano Bangladesh. Si può dire che la convivenza sia nei fatti, ma restano aree di pressione e di esclusione sulle minoranze etniche e religiose, solitamente motivate da controllo delle terre e delle risorse. L’islam bengalese resta nel suo complesso tollerante e dialogico, ma non è immune da un certo radicamento musulmano estremista, locale o straniero.

Perlopiù negato dalle autorità, nonostante lo Stato islamico abbia rivendicato dall’autunno 2015 la responsabilità di almeno una ventina di attacchi, anche letali, contro esponenti musulmani moderati, intellettuali, massmedia, cittadini stranieri e individui appartenenti delle minoranze religiose. Questo tuttavia non è sembrato incidere significativamente sui rapporti diplomatici e economici con l’estero, come poco hanno influito nel complesso le manifestazioni di dissenso verso il governo e le iniziative repressive contro la società civile, con media imbavagliati, carcerazioni e tortura e l’ampio uso di paramilitari e militanti dell’Awami League contro gli oppositori.

Significativo, ancor più per l’instabilità potenziale che pone sul futuro, è invece il crescente divario tra ricchi e poveri, la cui percezione è accentuata dal fatto che la popolazione più abbiente si arricchisce a uno dei ritmi più sostenuti al mondo. Se nello studio Poverty and Shared Prosperity 2018 della Banca Mondiale il Paese è stato inserito al quinto posto dopo India, Nigeria, Congo e Etiopia nella classifica dell’indigenza, con 24,1 milioni di poveri sotto la soglia di povertà posta internazionalmente a 1,9 dollari al giorno, lo High Net Worth Handbook dell’organizzazione newyorkese Wealth-X pone il Bangladesh al terzo posto nell’aumento previsto nel prossimo quinquennio di individui che disporranno da uno a 30 milioni di dollari.

Restano corruzione e sprechi, discriminazioni e incompetenza a limitare ulteriormente lo sviluppo, ma va segnalato che forse il maggiore ingrediente di arretratezza è quello naturale, è nella geografia del Paese sempre più sottoposto a eventi climatici (cicloni, alluvioni, piogge monsoniche) estremi. Basti valutare che il 70 degli arrivi nella capitale, un flusso impetuoso che non accenna a diminuire, sono conseguenza di eventi naturali negativi e vanno a alimentare il 60% della popolazione che vive negli slum di una metropoli di 15 milioni di abitanti.

Per contro, è lo stesso Ufficio di Statistica bengalese a segnalare che il tasso di povertà è sceso dal 44,2% nel 1991 al 15 dell’anno fiscale 2016-2017 per l’elevato livello di crescita di quel periodo, attorno al 6% annuo. Oggi che il Pil corre ancora più rapido, la situazione dovrebbe essere ulteriormente migliorata... Tuttavia non si prevede un arretramento nell’ineguale distribuzione della ricchezza.

«Il Bangladesh deve ancora fare molta strada per assicurare giusti minimi salariali ai lavoratori, un’equa tassazione, spese nel settore sociale e un proporzionato incremento degli impieghi», ha segnalato all’agenzia UcaNews, Anu Muhammad, docente all’Università Jahangir Nagar. Nella situazione attuale «lo sviluppo economico è offuscato da una crescita notevole nella disparità di reddito e questo è pericoloso. Nessun successo può essere sostenibile se falliamo nella riduzione della disuguaglianza». Sembra un paradosso, in un Paese per lungo tempo icona di una miseria senza speranza, che ora il nemico primo non sia la mancanza di risorse ma l’ineguale distribuzione del benessere. Comunque qualcosa di cui il governo dovrà tenere conto se vorrà concretizzare il suo obiettivo di sradicare la povertà entro il 2030.

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