sabato 26 novembre 2011
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La polemica che si è aperta nel Partito democratico tra il senatore Pietro Ichino, promotore di una riforma del mercato del lavoro che superi le differenze considerate eccessive tra garantiti e precari, e il responsabile per l’economia Stefano Fassina che punta esclusivamente a un’estensione dei diritti, più o meno sulla falsariga delle indicazioni della Cgil, è sintomatica di una difficoltà politica latente da anni (non solo nel Pd, ma nel Pd più che altrove). È la stessa contraddizione che ha visto una parte dei dirigenti democratici sostenere le scelte di Sergio Marchionne e altri a osteggiarle con eguale energia. Finché il partito stava all’opposizione, queste differenza di impostazione potevano trovare se non una sintesi, che non è possibile, una convivenza nell’ambito di una campagna propagandistica volta a gettare tutte le responsabilità e le polemiche sul governo di centrodestra. I sindacati tornavano a dividersi? Il Pd poteva evitare di prendere posizione per gli uni o per gli altri, limitandosi a sostenere che era il governo a seminare zizzania tra i lavoratori. La Banca centrale europea chiedeva misure urgenti di liberalizzazione del mercato del lavoro? Invece di rispondere nel merito, il Pd spiegava che la situazione di crisi finanziaria si sarebbe positivamente avviata a soluzione anche solo con la semplice uscita di scena di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi, quasi si trattasse di un antidoto alle invece inevitabili – e inizialmente dolorose – riforme. Ora è evidente che quella, pur comprensibile, soluzione propagandistica delle contraddizioni non regge più. Berlusconi si è dimesso, ma i problemi strutturali e la vulnerabilità finanziaria restano più o meno immutati, e il Pd, che contribuisce a sostenere il governo in carica, dovrà trarre le conseguenze scegliendo se appoggiare o no le riforme economiche e strutturali che verranno proposte, comprese quelle delle pensioni e del mercato del lavoro. Pur con tutta la 'discontinuità' nello stile e nei comportamenti individuali da parte del nuovo esecutivo, la continuità dei problemi resta infatti inesorabile. Quale sia l’orientamento di Mario Monti – che, a quel che si dice, avrebbe voluto affidare a Ichino il ministero del Lavoro – non è un mistero. Anche l’orientamento di partenza del Partito democratico, che ha approvato pressoché all’unanimità le tesi opposte di Fassina nei suoi organismi dirigenti, appare altrettanto chiaro. Il Pd è chiamato quindi a discutere per trovare il modo per aderire a riforme che non piacciono alla Cgil e a una parte tutt’altro che marginale dello stesso partito, accettando uno stato di necessità. L’alternativa è quella di ostacolare nei fatti l’iniziativa di un governo di cui ci si proclama sostenitori 'senza se e senza ma', condannadolo così all’impotenza, con effetti prevedibili e catastrofici. In fondo, la difficoltà in cui si dibatte il Pd è l’effetto di un atteggiamento sbagliato sul tema cruciale della convivenza di diverse 'anime' all’interno della compagine politica. Poche settimane fa Sergio Cofferati aveva sostenuto che non poteva stare nello stesso partito di Ichino, ora sono i settori 'liberal' a chiedere le dimissioni di Fassina. Invece di valorizzare le differenze e le elaborazioni autonome, salvo poi scegliere democraticamente quale sia la più adatta a fronteggiare la situazione come si presenta volta per volta, secondo uno stile laico e civile, si continua a ostracizzare e a tacitare le diversità, rischiando di farle diventare elemento di rottura e di secessione, secondo una prassi più adatta a formazioni ideologiche ormai sorpassate.
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