venerdì 13 settembre 2013
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Tra l’incudine dell’impresa Riva e il maglio della magistratura anche questa volta rischiano di restare schiacciati i lavoratori. L’annuncio di ieri della messa in libertà di 1.400 dipendenti della Riva Acciaio (in pratica tutte le attività extra-Ilva), infatti, segna una nuova, drammatica, escalation nel braccio di ferro che oppone da oltre un anno i giudici ai proprietari del maggiore gruppo siderurgico italiano, accusati di disastro ambientale a Taranto e di non aver ottemperato agli obblighi di risanamento.Ora – dopo gli arresti di alcuni componenti della famiglia d’imprenditori e il commissariamento dell’Ilva – l’ultima battaglia a colpi di carte bollate nasce dal sequestro preventivo penale operato dal Gip di Taranto con due provvedimenti (l’uno a maggio, l’altro a luglio, ma comunicato lunedì scorso) in base ai quali, sostiene l’azienda, «vengono sottratti a Riva Acciaio i cespiti aziendali, tra cui gli stabilimenti produttivi, e vengono sequestrati i saldi attivi di conto corrente e si attua di conseguenza il blocco delle attività bancarie, impedendo il normale ciclo di pagamenti aziendali», facendo sì che «non esistano più le condizioni operative ed economiche per la prosecuzione della normale attività». Insomma, il sequestro totale per circa 8,1 miliardi di euro, renderebbe impossibile la normale attività produttiva. Così da Verona a Caronno Pertusella (Varese), da Lesegno (Cuneo) ad Annone Brianza, da Malegno, Sellero e Cerveno in provincia di Brescia alla logistica di Muzzana e alla sede di Milano, uffici e impianti sono stati fermati e i lavoratori mandati a casa. Ovviamente senza stipendio e con ancor meno certezze sul futuro. È indubbio che la decisione dei vertici aziendali rappresenti una forzatura. Una contromossa dei Riva che non si fanno scrupolo di utilizzare i lavoratori come arma di pressione. A ragione i sindacati sostengono che la scelta della messa in libertà è «inaccettabile» e che vanno imboccate altre strade, a cominciare dall’attivazione degli ammortizzatori sociali. È però altrettanto evidente che il problema dell’operatività economica del gruppo – al di là di tutte le strumentalizzazioni – esiste, è concreto, non si può parlare solo e semplicemente di un "ricatto" da parte della proprietà. Se gli impianti sono sotto sequestro, se i conti correnti vengono bloccati, come si può procedere con l’acquisto dei materiali, la vendita dei prodotti e il pagamento di fornitori e dipendenti? In un momento, poi, in cui tutta l’industria italiana sta soffrendo la crisi e il gruppo Ilva, proprio a causa delle sue vicende giudiziarie, è in una situazione di particolare precarietà. Come uscire, allora, da questo ennesimo impasse che rischia di risultare esiziale? Potrà sembrare banale, ma l’unica strada è quella di mettere in campo il "buon senso" a dosi massicce. Che non significa vanificare l’azione della magistratura, né arretrare di un passo sul principio della legalità. Ma applicare i sequestri al patrimonio personale della famiglia Riva e non ai conti correnti operativi delle singole aziende, non concedendo così alibi ad alcuno. Il Tribunale del riesame, al quale il gruppo ha detto di volersi appellare, deciderà sulla legittimità o meno dei provvedimenti del Gip. Già da subito, però, possono essere impartite istruzioni precise ai custodi giudiziari, ben in grado di distinguere tra una villa e un impianto industriale, tra i fondi personali e il cash-flow aziendale.Ciò che altrimenti risulterebbe inaccettabile per tutti è che a pagare il prezzo più alto dello scontro al calor bianco fra gli inquirenti e i Riva, a fare le spese delle (presunte o certe) violazioni della legge, fossero i lavoratori e le loro famiglie. Gli unici sicuramente incolpevoli, i soli comunque vittime.
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