«Perdere un anno di vita a 91 anni non è come perderlo a 20 o a 50. Noi abbiamo poco tempo». Tutti, chi più e chi meno, abbiamo la sensazione di averlo un po’ 'perso', questo ultimo anno di vita sospesa, tra attività bruscamente interrotte e rapporti umani cristallizzati in attesa di ricominciare da dove eravamo rimasti. Ma chi già sa di aver consumato quasi tutta la sua esistenza ha un’urgenza diversa: «Per noi un mese sono dieci anni vostri», ci spiega l’anziana ospite di una Rsa marchigiana, che da marzo 2020 non incontra figli e nipoti causa Covid. «Avevo 90 anni l’ultima volta che ci siamo abbracciati, ora ne ho 91. Mi mancano tanto, vivo solo perché aspetto il giorno in cui li rivedrò».
Non ci si pensa mai: è vero, perdere un anno (e più) di vita quando necessariamente si sa che il tempo è poco, è inaccettabile. Non è stata colpa di nessuno: una pandemia richiede isolamento. Ma oggi che abbiamo i vaccini e iniziamo a riorganizzare quella che chiamavamo 'una vita sociale', l’urgenza massima va data agli anziani, i più colpiti prima per numero di vittime, oggi per una solitudine che richiede immediati rimedi. I vaccini mettono al riparo non tanto dal contagio ma certamente da un Covid grave, e per questo il governo ha sempre indicato come priorità la protezione dei più anziani: messi in sicurezza loro, avremmo visto svuotarsi le terapie intensive e calare i decessi.
Oggi nelle regioni virtuose i numeri sono confortanti e raccontano di over 80 che non si ammalano più. È giustificabile allora protrarre ancora il disperato isolamento cui, per il loro bene, li abbiamo costretti, ora che a ucciderli rischia di essere la solitudine molto più che il virus? «Si muore anche di depressione», sentiamo ripetere tutti i giorni da chi si preoccupa, giustamente, del malessere adolescenziale, ma non lo sentiamo ribadire abbastanza per chi dalla relazione umana trae linfa vitale, altrimenti si spegne come una candela.
Anche senza una pandemia le ore in una Rsa non passano mai, ma almeno a tenere acceso il lumicino della speranza c’è sempre quell’attesa del 'giorno di visita', quando per qualche ora entra il calore della famiglia. Che cosa avranno atteso in questi 14 mesi, chiusi dentro?
Qualcuno ha cercato surrogati, pareti di cellophane con maniche in cui infilare i propri abbracci, videocitofoni attraverso plexiglass per colloqui mordi e fuggi, ma molte residenze sono rimaste prudenzialmente inerti. Ieri Sandra Zampa, consulente del ministro della Salute, ha annunciato «un’ordinanza che riaprirà le Rsa ai familiari ed entrerà in vigore immediatamente». È da dicembre, ha sottolineato, «che il Ministero ha invitato a riprendere le visite in presenza nel rispetto dei protocolli, ma per i direttori sanitari delle strutture è più facile restare chiusi che prendersi la responsabilità di aprire».
Peccato però che il vero rischio, semmai, si annidi all’interno delle Rsa, cioè in quella minoranza di operatori che hanno rifiutato il vaccino e in un paio di casi recenti hanno contagiato gli ospiti già vaccinati (per questo infettati ma non ammalati). È vero, anche figli e nipoti spesso non sono ancora vaccinati, ma pur di andare in discoteca o al ristorante partoriamo tonnellate di idee riassumibili nel famoso 'triplete' del green pass vaccinati-guariti-tamponati: se funziona per le isole greche, può farlo per la visita ai nonni… Da mesi sui social i familiari riuniti nel comitato Orsan ( Open Rsa now, Aprire le Rsa adesso) raccontano il tormento delle loro esperienze («Mia mamma se ne fa ben poco di inutili stanze degli abbracci, lei ha bisogno di presenza, compagnia, abbracci reali – scrive Rita da Udine –, un ictus le ha portato via la parola anni fa»).
Ora anche il governo corre, il 9 maggio è la Festa della mamma. Forse si potrà festeggiare di nuovo.