venerdì 29 aprile 2011
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L’accordo preliminare raggiunto due giorni fa grazie all’opera di tessitura egiziana fra Hamas e Fatah per una "riconciliazione palestinese" (che prevede fra l’altro la nascita di un governo ad interim nella striscia di Gaza e una Road map che porti a elezioni politiche entro l’anno) non deve generare facili illusioni. A dissiparle ci ha pensato a tempo di record il premier israeliano Benjamin Netanyahu proclamando: «Non si può fare la pace con Hamas e con Israele al tempo stesso». Un verdetto gelido, forse poco lungimirante, e tuttavia figlio naturale di un ricordo fin troppo vivido, quello che vide il movimento di resistenza islamico vincere a man bassa le elezioni del 2006 sbaragliando l’esausta e corrotta Fatah del dopo-Arafat per poi impadronirsi con la violenza della Striscia di Gaza dopo neanche un anno di governo di unità nazionale e una difficilissima coabitazione con il moderato Abu Mazen, cui rimase a stento il controllo della sola Cisgiordania.In questa ipotetica Mousalaha ("riconciliazione" in arabo) il governo di Gerusalemme – che pure non brilla a sua volta per gesti conciliatori, anzi, grazie alle uscite del suo ministro degli Esteri Lieberman e di altri membri della coalizione pare sorda ai molti messaggi lanciati da Abu Mazen – teme una replica dell’effetto-Gaza. Teme cioè che Hamas rivinca democraticamente le elezioni, si impadronisca della Cisgiordania, metta in libertà centinaia di detenuti molti dei quali vicini al radicalismo più intransigente e violento come quello delle Brigate Ezzedin al-Qassam (il braccio armato di Hamas all’interno della Striscia che ha fornito il nome ai famigerati missili lanciati da Gaza sulle città israeliane confinanti) e costringa Fatah e i suoi dirigenti ai margini della vita politica palestinese, se non all’esilio. Senza per questo rinunciare ai punti fermi del proprio statuto, nel quale, giova ricordarlo, si dichiara: «Non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihad».Ovvero, nella distruzione di Israele.Non illudiamoci, dunque. Questa Road map interpalestinese – per l’allestimento della quale va riconosciuto alla nuova dirigenza egiziana (e probabilmente in posizione defilata all’intramontabile Omar Suleiman) un ruolo di primo piano che il deposto Hosni Mubarak non aveva saputo garantire – difficilmente approderà a concreti risultati. Gli stessi dirigenti di Hamas già mettono le mani avanti: non interferiranno nei colloqui di pace di Abu Mazen, dicono, ma il nuovo governo Fatah-Hamas non avrà questo mandato, ma semmai chiederà all’Onu un riconoscimento unilaterale per uno Stato palestinese indipendente.Benzina sul fuoco dei timori israeliani, che minacciano ritorsioni e intravedono all’orizzonte scenari ancor più inquietanti.Perché una seconda vittoria di Hamas potrebbe significare un’ulteriore estensione della longa manusdi Teheran in Medio Oriente. La stessa che già sostiene (e, in certa misura, condiziona) il regime del siriano Bashar al-Assad, che arma a finanzia Hezbollah in Libano e Hamas stessa a Gaza, che guarda con occhio interessato ai sommovimenti in Bahrein e nello Yemen, che si aggiudica dopo anni di guerra fredda il riavvicinamento con Il Cairo («L’Iran è un Paese islamico e non è un nemico d’Egitto», ha detto pochi giorni fa il capo del consiglio militare Tantawi), che intimidisce perfino la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, relegandolo in un imbarazzato silenzio sui massacri in corso in Siria per non accendere frizioni con il turbolento vicino che gli contende il primo di potenza regionale.«Hamas – sentenzia il presidente Shimon Peres – non cesserà di essere una organizzazione terroristica. L’accordo raggiunto è un errore fatale». Non possiamo dirlo, per ora. Come non lo dicono apertamente le cancellerie occidentali, il Quartetto, l’Unione Europea. L’ottimismo – è l’abc della diplomazia – in casi simili resta obbligatorio. Il realismo però è tutt’altra cosa.
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