Socrate e la mini, parlar di scuola e non per rimpianto, ma per amore
martedì 22 settembre 2020

Caro direttore,
orfana da piccola, sono rimasta in collegio fino a 18 anni. Avevamo una divisa dignitosa e, secondo me, bella per uscire e un grembiule nero con colletto bianco per la quotidianità. Non mi sono mai sentita a disagio, chiaramente in un contesto sociale diverso dall’attuale. Sono la meno indicata, per questo motivo, a parlare della questione “minigonne” al Liceo romano, però non posso esimermi dal pormi una domanda. “Per gli studenti di oggi cosa è la scuola?”. Erede del pensiero classico e anche della maieutica socratica (Liceo Socrate!) negli anni Cinquanta-Sessanta, la società concepiva la scuola come luogo di promozione umana, intellettuale e culturale. Pure allora – come sempre, del resto – ci saranno state eccezioni ma, in linea generale, l’alunno con sforzo e dedizione doveva impegnarsi per rispondere alle richieste della scuola. Lo studio era rigoroso. Che fatica quelle traduzioni dal latino, le dimostrazioni di teoremi di matematica, la messa in prosa del poema dantesco, con relativa ac- quisizione, a memoria, di alcune sue parti! Petrarca, Leopardi, Pascoli, Carducci a memoria... e altro. Ora il concetto di scuola è capovolto. È la scuola stessa che secondo un’idea dominante deve piegarsi verso l’alunno e le sue esigenze, per non dimenticare le aspirazioni dei genitori. Ma così la scuola è solo a parole al servizio della persona. Al contrario, è utilitaristica. Il sapere è messo in relazione col potere. Si impara, si acquisiscono conoscenze per migliorare il potere economico di una nazione e la posizione sociale dell’individuo (non a caso si parla di scuola come “ascensore sociale”). È una scuola dove all’esame finale la promozione è in gran parte garantita. Il 99 per cento quest’anno ha superato la maturità con voti, in media, più alti rispetto agli anni precedenti, nonostante la forzata interruzione. Non ci dobbiamo meravigliare allora se un suo problema sono le minigonne delle studentesse! Mi fermo qui. La seguo sempre con attenzione e stima.

Margherita Bettineschi Brescia

Non considero questa sua intensa riflessione un rimpianto, gentile e cara amica, ma un atto di amore per la scuola e per la sua missione o, se si preferisce (perché magari “missione” sembra troppo enfatico), per la sua funzione. Vorrei che un tale atto d’amore fosse sempre accompagnato anche da un atto di speranza. Che sia specchio degli investimenti seri e più cospicui che il Paese deve ricominciare a fare nella sua scuola e dei fatti di speranza che ogni giorno, nonostante certo pensiero dominante, continuano ad accadere nelle classi italiane dove non tutto, grazie a Dio e a ottime e ottimi insegnanti e presidi, si riduce a incandescente dibattito d’occasione sulla minigonna o sull’accessorio di turno. Io sono favorevole, per formazione familiare (e per esperienza scout), a uno stesso abbigliamento per tutti i ragazzi e tutte le ragazze: uniformi non per mera disciplina ma per sostanziale uguaglianza. Mi piace l’idea di un luogo dove non si è diversi per scorza (più o meno ricca, o povera, o sgargiante o provocatoria) ma per originalità e per impiego e valorizzazione di talenti personali che non dipendono dal censo e che possono fruttare di più e meglio nel lavoro di squadra. E perché, senza disprezzare in alcun modo l’effetto “ascensore sociale” che la scuola a mio avviso può e deve avere, proprio come lei credo che il piegarsi verso l’alunno e l’alunna sia per offrire a ciascuno e ciascuna gli strumenti per affrontare la vita a occhi aperti e fronte alta, e non un poco esemplare e per nulla generoso inchinarsi a mode e convenienze. Grazie per la sua attenzione e la sua stima, e per la sua serena schiettezza.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI