mercoledì 27 febbraio 2013
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Poche ore ancora e il Pontificato di Be­nedetto XVI chiuderà il suo corso. L’a­nello del pescatore verrà frantumato e la me­moria dell’evento lascerà carico di commo­zione il cuore di chi ha amato Joseph Rat­zinger, e non solo. Provocherà riflessioni di senso anche in chi ha imparato a conoscer­lo nei suoi ultimi giorni di pastore della Chie­sa universale, in chi, benché lontano dalle sue parole per diversa sensibilità, non ha po­tuto che apprezzare il coraggio profetico di un vecchio Papa che ha trasformato il tem­po di una rinuncia, dolorosa e sofferta, in un potente grido di futuro, carico di respon­sabilità e impegno per tutta la Chiesa. Gri­do potente di speranza, impastato di verità evangelica.

Dall’11 febbraio, dopo la prima scossa e­mozionale, quasi una perdita di orienta­mento, giorno dopo giorno sembra emer­gere nella Chiesa sempre più chiara la con­sapevolezza di una precisa e strutturata vo­lontà di Benedetto di accompagnare la sua uscita, di voler raccontare senza enfasi il suo percorso e consegnarsi al giudizio di Dio e degli uomini nella verità che rende liberi. La consegna di un Papa che, non sen­za motivazioni, cerca – nei segni e nelle parole – di congedarsi senza clamore, benché il suo gesto resti naturalmente senza enfasi, come lo stile di tutto il pontificato.

Le ul­time omelie e le espressioni a brac­cio possono ben definirsi una 'ca­techesi del congedo', e forse nel tempo qualcuno potrebbe ritro­vare tra le righe l’ultima enciclica che per impeto e affetto potrem­mo intitolare: Sumus ad servan­dum, rievocando le parole pro­nunciate domenica da Benedet­to nell’ultimo Angelus a piazza San Pietro. Carezze di profondo significato le sue parole vestite di sobrietà, ca­paci di trapassare il luogo dell’ap­parenza e comunicare una forza inaudita nonostante il Papa stes­so confessi la sua mancanza di vi­gore. Una nuova luce circonda la sua persona, mai come in questi giorni luminosa, che trasmette se­renità e pace. Gesti e parola di con­segna passati con la certezza che faranno il loro corso nella nostra storia individuale, affidati alla ri­flessione della Chiesa che non po­trà che farne tesoro per ripartire da dove Benedetto si congeda.

Un testamento, le sue ultime parole, che tracciano un confine tra il pri­ma e dopo e indicano un percor­so: la preghiera, la vocazione, la gratitudine, l’abbandono a Cristo che guida la sua barca. Non è possibile organizzare il tem­po della comunità cristiana senza un recupero della sua ascesi cre­dente, la preghiera come spazio di fede e come offerta di nuova so­stanza di appartenenza. La vocazione è me­moria di un incontro, rimando al primo 'sì' dato al Maestro di Galilea, che ogni creden­te deve tenere sempre presente, che deve te­ner presente la Chiesa per dare risposta alla sua stessa vita. Come non vivere la fede e la storia con gratitudine, originando uno stile rivoluzionario di vita che nella Chiesa offra al mondo la sua testimonianza di impegno alla gioia. Il tempo ci dirà quanto di ciò che ci sta con­segnando in questi giorni Benedetto resterà, in un’epoca capace di emozionarsi veloce­mente e velocemente dimenticare.

La storia futura di sicuro non dimenticherà Benedet­to, non dimenticherà che un uomo, il suc­cessore di Pietro, ha avuto il coraggio della profezia, mentre parole di fumo avanzano nel consesso degli uomini. Domani sera il Santo Padre lascerà il ponti­ficato, e si comincerà a parlare del dopo Rat­zinger. Nel frattempo, c’è ancora spazio per raccogliere la sua testimonianza e fare teso­ro di tanta ricchezza. Nel frattempo, il suc­cessore di Pietro, Vicario di Cristo, è Bene­detto XVI, e chi ascolta lui ascolta il Maestro di Galilea: dopo ci attrezzeremo al dopo, o­ra è tempo di godere – e soffrire – il presen­te che ci è concesso.

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