martedì 6 maggio 2014
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Un giorno qualcuno ha scritto: «Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché da esse si misura il grado di civiltà di una nazione». E oggi io scrivo da una galera, dopo i giorni della Pasqua nei quali abbiamo rivissuto pure noi la prodigiosa battaglia tra la vita e la morte: il sovraffollamento di disperazione come forma di passione, il dramma del suicidio di un ragazzo giovane e di un agente di polizia penitenziaria come giorni di silenzio, il battesimo di Cristian come annuncio della Pasqua. Ferite e feritoie di una Grazia misteriosamente all’opera dentro una disgrazia feriale certa. Essere Chiesa qui dentro è una cosa profondamente e tremendamente seria: il male non va giustificato, ma abbiamo il dovere di cercare di comprendere i perché di ogni vita deragliata, con la grammatica di quella misericordia che – come annotava Benedetto XVI – non cancella la giustizia. Ma l’aiuta a brillare del suo più splendido significato: restituire alla società un figlio, una figlia, che tutti davano come perso e dannato.I tempi stringono, la situazione non migliora, la speranza sembra affievolirsi: ci sono giorni nei quali in questa barca di cemento e ferro che affonda, anche Cristo sembra aver preso sonno e il male ergersi vittorioso. Eppure non è così: basta un cenno e la vita riparte. Più ardita e spettacolare, ancor più imprevedibile. La sua voce in carcere è come una brezza leggera nel deserto: i ragionamenti del cuore, l’indomabile voglia d’andare a cercare l’uomo laddove s’è smarrito sono l’unica forza capace di vincere le disperazioni. Certi giorni basta un nome – Francesco – per vedere splendere un sorriso, asciugarsi una lacrima, vincere la malinconia. Quei piedi lavati dal Papa neoeletto nel carcere minorile di Casal del Marmo sono subito valsi l’amore sicuro di tanti che nella vita hanno fallito. E, poi, la Chiesa come ospedale da campo, la memoria delle mamme dei detenuti, l’inedita immagine della cella come punto di contatto con Dio, le lettere inaspettate... Un continuo narrare la vicinanza di Dio. Un Dio che "invece di abbandonarli ha stretto con loro un vincolo nuovo per mezzo di Gesù". Un Padre giusto.Sono uomini e donne che oggi guardano a Papa Francesco come profeta di speranza e di misericordia. Non gli chiedono di spendere parole politiche per amnistie o indulti. Gli chiedono, prima di tutto, un ricordo nella preghiera: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,43). E, poi, osano sperare di essere da lui rappresentati al cospetto di tribune dimentiche e lontane da loro. Perché ricostruire un uomo è ricostruire il sogno di Dio. Perché recuperare Caino non è dimenticarsi di Abele, ma ricongiungere faticosamente la vittima col carnefice, l’uomo con se stesso, la creatura col Creatore.La franca presenza e la parola forte del Papa ci sorreggono in quest’avventura di estrema periferia. Da Giovanni XXIII fino a Francesco la storia dei successori di Pietro s’incrocia con il ferro e il cemento delle galere: ed è storia di miracoli e di conversioni. Al Papa gli uomini e le donne delle galere chiedono che "presti" ancora la sua voce all’afonia che essi vivono, che le sue parole di preghiera e di sprone assicurino che l’amore vince l’odio e la vendetta è disarmata dal perdono, che il suo sguardo faccia aprire gli occhi su di loro, su tutti noi, sul mondo di chi sbaglia. Proprio qui, in Italia, le cose possono e debbono civilmente, umanamente, cambiare. E non per paura dell’Europa dei diritti dell’uomo che ci giudica o per pura vergogna, ma semplicemente perché una riconciliazione è possibile. Possibile e doverosa, come seguito della prima Pasqua.Sentire il Papa compagno di viaggio dentro le galere è sentirsi come a Emmaus, quando l’amarezza dei due viandanti fu preludio all’incontro con la Vita. Risorta e riconciliata.
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