martedì 19 giugno 2012
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​La reazione dei mercati finanziari alle elezioni in Grecia, a dieci giorni dal decisivo vertice dei capi di Stato e di governo della Ue sul futuro dell’euro, sembra dare ragione alla diagnosi di Mario Monti sul "baratro" dell’emergenza, dal quale l’Italia nei mesi scorsi si è allontanata non poco, ma che, allargandosi in continuazione, torna di continuo a insidiarci. Prima di partire per il G20 messicano, il premier ha chiesto espressamente di affrettare il varo del ddl sul lavoro: una riforma cruciale, approvata a colpi di fiducia al Senato dopo una lunga istruttoria e che ieri pomeriggio ha iniziato il "secondo round" a Montecitorio, tra timide disponibilità a fare presto e inviti perentori a non «forzare la mano». Si vedrà oggi se, nell’annunciato vertice tra il ministro Fornero e i capigruppo della maggioranza, si faranno passi avanti sostanziali. La sollecitazione di Palazzo Chigi è dettata dalla necessità di dimostrare ai nostri partner, con l’evidenza dei fatti concreti, che il sostegno parlamentare allo sforzo di risanamento dell’economia italiana non è venuto meno. Del resto, in queste stesse ore, i tre partiti dell’"area ABC" stanno cercando di concordare una mozione di appoggio e di stimolo alla linea che Roma si appresta a rappresentare a fine mese in sede europea. Una mossa politica senz’altro opportuna, visto il clima di scetticismo che si sta di nuovo diffondendo nei confronti del Belpaese. Ma che rischia di rivelarsi insufficiente e perfino controproducente. Se infatti l’appello di Monti a chiudere il prima possibile la riforma del lavoro resterà inascoltato, il documento di appoggio all’esecutivo potrebbe essere usato, in modo paradossale ma non troppo, come prova ulteriore della cattiva volontà degli italiani di fare sul serio la loro parte. Perché agli occhi smaliziati degli osservatori internazionali risalterebbe subito la contraddizione tra le proclamazioni di principio e i comportamenti effettivi. Inducendo a concludere che l’esecutivo di casa nostra è ostaggio dei soliti "giochi di prestigio" romani. È chiaro che non si può esigere dalle forze politiche né di rinunciare in toto al loro ruolo di controllo e di proposta né di tarparsi le ali dando passivamente via libera a tutto quello che il governo mette sul tavolo. Tanto più che, pur volendo escludere una conclusione della legislatura prima del suo termine naturale, l’orizzonte del voto si avvicina ogni giorno di più e spinge per forza di cose a marcare le differenze e a cercare quel consenso che tanti segnali danno in costante calo. Ma nel caso specifico del mercato del lavoro l’obiezione non sembra reggere. Vediamo perché. Dal Pd si esprime un consenso di massima ad accelerare i tempi, ma si chiede in cambio al governo di trovare una soluzione al nodo degli "esodati" (oltre che a quello degli ammortizzatori sociali). Istanze legittime, ma che non hanno attinenza diretta con la nuovo disciplina sull’occupazione e, dunque, non possono essere accreditate come presupposti necessari al via libera su un testo che è già stato fatto convintamente passare, dopo accurato esame, in prima lettura. Sul versante del Pdl, in maniera analoga, colpisce il contrasto stridente fra l’esortazione insistita al premier a far sentire forte la sua voce a Bruxelles, battendo se occorre i pugni sul tavolo, con la ritrosia ad accendere la luce verde finale su un provvedimento che, piaccia o no, è assurto ormai a ruolo di simbolo. E che quindi darebbe al nostro presidente del Consiglio un di più di autorevolezza proprio per trovare ascolto e credibilità. Con tutto il dovuto rispetto per la pari dignità dei due rami parlamentari, allora, non si capisce come mai ieri l’esame-bis sia ricominciato a Montecitorio secondo il consueto rituale, con tanto di audizioni preliminari degli esperti e delle forze sociali che si erano già abbondantemente espressi. Nel novero delle riforme istituzionali, sempre ipotizzate e mai realizzate, quella che riduce e supera il "bicameralismo ripetitivo" è da tempo fra le più condivise. Darne, nelle debite forme e con il massimo accordo possibile, un’anticipazione "una tantum" non dovrebbe apparire scandaloso. Almeno, non più degli antichi e arditi bizantinismi ai quali la nostra classe politica ci ha abituato da decenni.
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