venerdì 17 dicembre 2021
Nel dibattito su chi può definirsi filosofo, emerge la contraddizione del funzionalismo che sostituisce l’ordinamento giuridico. Dai decreti-legge al Green pass, i rischi da valutare
Se va bene tutto purché funzioni, il pensiero critico non serve più

Solinas

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Caro direttore,

le considerazioni che condivido con lei traggono origine dalla “conversazione” che, sulle pagine di “Avvenire”, Andrea Lavazza ha condotto con Giovanni Boniolo e Lisa Bortolotti (15 novembre 2021) e dal successivo dialogo tra Andrea Lavazza e Vincenzo Vitale (1 dicembre 2021) attorno a un argomento che mi sembra figlio dell’atmosfera esasperatamente mediatica nella quale viviamo da qualche tempo. L’argomento è: a chi spetta il titolo di “filosofo”?

Perché dico che questo argomento è figlio del mondo mediatico nel quale viviamo? Perché questo mondo ha per fine esclusivo la capacità di impatto, che produce la reattività immediata del pubblico, anziché la effettiva comprensione, prodotta dal tempo della riflessione e del ragionamento, delle questioni sul tappeto. Ne segue che in un tale contesto ciò che “funziona” (ricordate il titolo del film di Woody Allen: Basta che funzioni?) è l’enfasi posta sulla etichetta professionale del partecipante al salotto televisivo (dal virologo al filosofo... e così via) senza soffermarsi su cosa dice il personaggio e soprattutto su come dice ciò che dice; vale solo l’impatto linguistico. Su questioni scientificamente, sociologicamente, politicamente e giuridicamente delicate, quali quelle che ci inseguono da tempo, non mi sembra abbia mai avuto luogo un confronto televisivo tra portatori di opinioni scientificamente fondate (per scientificamente fondate mi riferisco anche a quelle puramente intellettuali) ma diverse, secondo la regola della argomentazione e della contro-argomentazione. Tutto si risolve in interventi individualistici retti esclusivamente dal rilievo mediatico dalla “etichetta” professionale del “parlante”, secondo la logica, appunto, del “purché funzioni”.

Questo, del “purché funzioni”, è un passaggio chiave anche della attuale prassi giuridico-politica, che, si badi, non riguarda solo la comunicazione pandemica (tema più ampio da trattare altrove). Prassi che consiste nel trascurare la natura ordinamentale degli atti e badare solo al loro “effetto” pratico. Due esempi: i Dpcm di Conte e i decreti-legge di Draghi. I Dpcm sono atti tipici di natura amministrativa, di competenza del Presidente del Consiglio, destinati, tipicamente appunto, a regolare il funzionamento del Consiglio dei Ministri. L’uso seguito dal governo Conte è stato, anche a mio parere, del tutto atipico, estendendo questi atti a normare una materia tanto diversa da ricadere, secondo ordinamento, sotto il regime legislativo. Altro esempio. I decreti-legge di Draghi. È noto che tale decretazione spetta al governo nei casi di necessità e urgenza e perciò ne consegue che i provvedimenti in essa contenuti entrino in vigore immediatamente. Non è così nel nostro caso, poiché l’entrata in vigore è posticipata rispetto alla introduzione dell’atto. Quindi si usa una forma ordinamentale corretta, ma solo nominalmente, perché la effettiva funzione normativa non vi corrisponde.

Si tratta di due esempi dove l’azione di governo si combina con l’impatto socio-mediatico e funziona, sostituendo l’”effettività” del potere normativo al rispetto delle forme volute dall’ordinamento. Purché funzioni, insomma! Esclamazione che può riferirsi ancora a un altro esempio: libertà vaccinale-certificazione verde. Il “funzionalismo” della soluzione consiste nel sostituire di fatto il modello “governance” al modello “ordinamento giuridico”. Nel sostituire, cioè, al modello classico dell’ordine giuridico un modello fondato sull’equilibrio prodotto dalla “negoziazione” tra poteri di fatto, nel senso che la loro natura giuridica, quale che sia, è irrilevante. Lasciare giuridicamente intatta la libertà vaccinale, ma trasformarla di fatto in un illecito sociale meritevole di cripto-sanzioni, significa aver reso irrilevante l’ordinamento giuridico e aver puntato a produrre, in fatto, un puro equilibrio, mediaticamente legittimato, tra paura sociale e autorità governativa.

Il punto è che, da un lato, la questione vaccinale è stata formalmente lasciata alla decisione privata, da regolare secondo i criteri propri del trattamento sanitario obbligatorio, dall’altro però è stata concepita, ancora una volta in fatto, come una questione di ordine pubblico (tutela della salute pubblica), sostituendo la responsabilità istituzionale con una legittimazione sostanziale, a partire dalla divisione sociale tra “buoni” e “cattivi”. Questo procedimento è tipico del funzionalismo della governance che fa evaporare l’ordinamento giuridico che regge lo Stato di Diritto, che con le sue categorie giuridiche qualifica invece la forza normativa degli atti, legittimando politicamente l’azione di governo di chi li pone in essere, con il corredo della relativa competenza e responsabilità istituzionali. Ma forse questa materia non ha l’impatto mediatico che favorisce la «snellezza» e la «flessibilità» dell’azione di governo necessaria a «governare la quarta rivoluzione industriale». Mi riferisco ad un passo contenuto, tra tante altre cose, nel libro scritto da Klaus Schwab, presidente, come è noto, del Foro Economico Mondiale, dal titolo, appunto, “Governare la quarta rivoluzione industriale” (tr.it. Franco Angeli 2019). Testo, nel quale l’Autore scrive testualmente che le attuali tecnologie rendono superati gli istituti giuridici che ci hanno retto finora e che occorrono modelli di governo «snelli e flessibili». Idea che ritorna anche in chiusura del volume del 2020 “Covid-19. La grande réinitialisation” (Ginevra, 2020).

Questioni, e volumi, che meriterebbero una particolare conoscenza e considerazione, al fine di comprendere la condizione che l’uomo occidentale sta vivendo nel presente e vivrà nel futuro. Ma i media di questo non si occupano; preferiscono l’impatto offerto da personaggi che declamano, corroborati dalla forza delle loro etichette professionali. In definitiva, non credo che la questione odierna consista nel chi meriti l’appellativo di filosofo, ma nel riuscire a fronteggiare con quel che resta del “pensiero critico” l’epoca presente, nella quale si è affermato il “post-pensiero”.

Filosofo del diritto (già professore ordinario, Università di Catania e Università Cattolica di Milano)

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