Se non si trovano lavoratori la risposta non è la flessibilità
giovedì 16 febbraio 2023

Le spesso brutali leggi della domanda e dell’offerta oggi, una volta tanto, sembrerebbero giocare a favore del lavoro. Per fattori demografici, per via della veloce innovazione tecnologica e di ritardi nella formazione, per la prima volta in Italia ci sono aziende che cercano lavoratori e non riescono a trovarli. Anzi molti ragazzi si dimettono perché lo stipendio è troppo basso o, come è avvenuto negli Stati Uniti, perché le condizioni di lavoro sono disagiate o il capo si è dimostrato troppo arrogante.

Non è un atteggiamento parolaio da social: l’Istat, detentore di dati attendibili, rileva che il tasso di posti vacanti sul numero degli occupati ha segnato circa quota 2% a fine 2022: a conti fatti utilizzando anche le proiezioni Unioncamere-Anpal le aziende italiane starebbero cercando al momento circa mezzo milione di lavoratori, sarebbero pronte ad assumerli ma non li trovano. Anche il dato sulle dimissioni non è frutto di una narrazione: solo nei primi nove mesi del 2022 il fenomeno ha raggiunto oltre il milione mezzo di casi. Eppure, i salari sono bassi, aumentano i cosiddetti lavoratori poveri, e l’inflazione cresce a un ritmo assai più veloce delle buste paga. Sembrerebbe dunque che molte aziende siano disposte ad assumere, benché in fase di necessità, solo alle loro condizioni che spesso vogliono dire un contratto a termine invece che a tempo indeterminato e un salario non attraente o decisamente inadeguato.

Occupazione precaria, invece di occupazione buona e di qualità. Per avere la conferma di questa tendenza basta vedere i dati dell’Inps: dal 2015 al 2022 i contratti precari sono saliti da 3 a 4 milioni. Quali sono le conseguenze in termini di azione politica? La prima conseguenza è che almeno in questa fase non è affatto necessario introdurre ulteriori misure di “flessibilità” per incoraggiare gli imprenditori ad assumere perché, come abbiamo visto, sono già disposti ad assumere e il Jobs Act con la sua sostanziale deregulation basta e avanza. Sarebbero invece necessarie misure per agevolare la trasformazione dei contratti di lavoro a termine in rapporti a tempo indeterminato. In questo senso il cosiddetto Decreto Dignità, che impone una “causale” per rinnovare il contratto a termine trascorso un anno dall’assunzione, ha avuto un effetto positivo: ad esempio nei primi dieci mesi del 2022 le trasformazioni in un contratto a tempo indeterminato sono cresciute del 56% rispetto allo stesso periodo del 2021.

L’idea, avanzata anche dal ministro del Lavoro Elvira Calderone, di abolire del tutto le “giustificazioni” sembrerebbe, perciò, un passo almeno controverso. E, comunque, si potrebbe demandare alla contrattazione il compito di definire la questione per evitare che le imprese si ritengano vessate. Senza riaprire dunque il tema, assai tormentato negli ultimi decenni, della flessibilità all’ingresso, e anche in uscita, ormai a livello più che sufficiente, il governo e il mondo della politica potrebbero e dovrebbero focalizzare l’attenzione su tre questioni veramente urgenti: salari, demografia e dimensioni d’impresa.

La questione salariale è da mettere urgentemente sul tavolo. L’Upb, l’Ufficio parlamentare di bilancio, ha parlato di aumenti salariali “moderati”, al di sotto dell’indicatore di riferimento per i rinnovi contrattuali: 1,1% contro un’inflazione ancora a doppia cifra. La questione dell’inverno demografico, con riflessi anche sulla risorsa dell’immigrazione, va posta ormai tra le variabili permanenti del tema lavoro: l’aumento del tasso di occupazione al 60,5%, di cui qualcuno ha gioito, è dovuto a una triste diminuzione del denominatore, cioè la popolazione, di 200mila soggetti in età da lavoro a quota 23,2 milioni.

Infine, la dimensione delle imprese: una recente indagine dell’Inapp, l’Istituto di analisi delle politiche pubbliche, testimonia che qualità del lavoro, produttività e dunque salari, sono peggiori più si riducono le dimensioni delle aziende e cominciano ad essere accettabili solo sopra i 50 dipendenti il che rende urgente una riflessione attenta sulla politica industriale del Paese.

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