Se la sinistra si riduce all'«autodeterminazione»
domenica 29 agosto 2021

Deriva individualistica, comunità, eredità (smarrita) del sociale bianco Caro direttore, mi considero un uomo di sinistra. Penso che, a dispetto di certe teorie oggi di moda, la coppia oppositiva destra-sinistra non sia affatto inservibile. Né ai fini descrittivi, né in chiave prescrittiva. Di più: provo fastidio per una certa idiosincrasia cattolica a 'prendere parte' e semmai a ipostatizzare un terzismo non meglio definito. Talvolta (non sempre) ispirato a uno sterile perfettismo.

Ciò detto, devo confessare un mio personale disagio a fronte dell’acuirsi di una deriva culturale della sinistra nostrana in chiave individualisticoradicale. Una visione o forse più semplicemente un riflesso condizionato che trova riscontro in due circostanze: 1) l’enfasi posta sui diritti civili a discapito dei diritti sociali e del lavoro; 2) la concezione stessa dei diritti civili riduttivamente intesi come meri diritti individuali. L’occasione per riflettere ci è stata fornita di recente dalle discussioni relative al ddl Zan e al suicidio medicalmente assistito. Semplifico: nel primo caso, lo si è misurato nella chiusura a emendamenti ragionevoli che fugassero oggettivi equivoci connessi a una esasperata soggettivizzazione della cosiddetta identità sessuale.

Nel secondo caso, nello slittamento verso l’eutanasia attiva solo nominalmente (e un po’ ipocritamente) denominata diversamente nella bozza di legge all’esame della Camera sospinta da una iniziativa referendaria e, va detto, da una discutibile sentenza della Consulta. Al fondo, mi pare appunto di scorgere una tendenza che non è di oggi, ma che sembra si stia acuendo. Figlia di una cultura-ambiente, intesa come vissuto e senso comune, che fa perno sull’individuo e sull’assolutizzazione del principio di autodeterminazione.

Piuttosto che sulla persona come soggetto strutturalmente in relazione e connotato da un vincolo di solidarietà comunitaria. Come, a ben vedere, essa è disegnata nella nostra Costituzione (segnatamente negli articoli 2 e 3) in una prospettiva che semmai appunto la sinistra dovrebbe a fortiori apprezzare e sviluppare. Un disagio, dicevo, ma anche e soprattutto un cruccio, il mio, perché sono convinto che ciò rappresenti un motivo di depauperamento della sinistra e che esso, oltre un certo limite, configuri il tradimento del suo statuto ideale e del suo retaggio storico.

Un difetto culturale prima che politico che concorre a illuminare la ragione del divorzio della sinistra dai soggetti più svantaggiati, da larghi settori dei ceti popolari e, per converso, il suo insediamento circoscritto alle aree urbane e tra i ceti sociali più abbienti. E forse anche spiega l’attrazione esercitata sul popolo dalle sirene populiste di vario conio, in assenza di altre, più convincenti offerte politiche. Tale 'divorzio' è, a mio avviso, idealmente e politicamente insostenibile per una sinistra degna di questo nome.

Ma che si comprende perfettamente appunto con il messaggio neppure troppo subliminale che la sinistra veicola: quello di occuparsi di temi e di diritti sì meritevoli ma un po’ eccentrici rispetto al vissuto concreto delle persone comuni. Alle loro ansie, ai loro bisogni quotidiani. Quelli che La Pira, con il suo 'materialismo cristiano', scandiva come un mantra: pane, casa, lavoro, salute, istruzione. Beni che, a suo avviso, dovevano rappresentare una sorta di ossessione per il buon politico.

Assolute priorità programmatiche dettate anche da quel 'sentire con il popolo' che è ingrediente essenziale di una vera coscienza democratica. Spesso mi chiedo anch’io dove rinvenire oggi traccia della grande tradizione della sinistra sociale cristiana e se non vi sia una relazione – non so se più causa o più effetto – tra la sua latenza (eclisse?) e l’impoverimento della sinistra tutta. Ecco un tema di discussione importante e che credo urgente: che ne è dell’eredità del ricco universo del 'sociale bianco' nella sua proiezione politica?

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