giovedì 20 maggio 2010
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Caro direttore,la crisi mette sotto pressione i conti pubblici e, com’è giusto, torna alla ribalta il problema gravissimo dell’evasione fiscale. Con grande sforzo di fantasia si riesuma il famigerato redditometro – che in passato non mi pare abbia dato mirabolante prova di sé – e sui giornali si fa l’inventario delle voci che potrebbero essere prese in considerazione per stimare il reddito effettivo di una famiglia. Mi sono detto che forse questa potrebbe essere la volta buona per voltare pagina, vedendo finalmente i tanti professionisti con tenore di vita sfarzoso e redditi ufficiali da co.co.co. finire nella rete dei controlli. La mia fiducia si è però subito inceppata al vedere che anche stavolta si include tra i «sintomi» di ricchezza la frequenza a scuole «private». Sono furibondo: ho tre figli e avrei voluto mandarli tutti alle scuole superiori cattoliche, ma ci sono riuscito solo con l’ultimo, perché proprio non ce la facevo economicamente. E l’esperienza positiva di questo ragazzo ha accentuato la frustrazione per non aver potuto far fare la stessa esperienza anche agli altri due. Perché una modalità di frequenza alla scuola pubblica – anche quella paritaria lo è: lo sancisce la legge Berlinguer di 10 anni fa – dev’essere additata come sintomo di ricchezza e, quindi, di sospetta evasione fiscale? Perché invece lo Stato non comincia a fare la sua parte, facendo seguire alle dichiarazioni di principio qualche misura concreta a favore delle famiglie che non fanno altro che esercitare un loro diritto?

Gianfranco Stoppani

Ciò che più mi colpisce, gentile signor Stoppani, è che nella concezione che sembra stare alla base della costruzione di questo redditometro e, ancor più, in quella di qualche collega giornalista la libertà educativa delle famiglie finisce sostanzialmente per coincidere con i concetti di «lusso» e di «privilegio». Due concetti che non dovrebbero neppure essere presi in considerazione quando parliamo di scuola. So – noi di Avvenire lo abbiamo spiegato in modo non equivocabile – che nella giusta caccia a evasori (ed elusori) dei doveri fiscali verrà scrutata solo l’eventuale iscrizione di figli a «scuole esclusive» (con rette a carico delle famiglie dei ragazzi così onerose da escludere, appunto, la gran parte dei potenziali aspiranti alunni...). E mi rendo conto che il criterio possa apparire più che congruo. Tuttavia i motivi di perplessità non vengono meno. Ho conosciuto, per esempio, persone non ricche – italiani rientrati in patria dall’estero o stranieri radicatisi in Italia – che hanno scelto e scelgono, spesso con notevoli sacrifici, di far frequentare ai propri figli scuole che fanno parte di circuiti famosi e che sono indubbiamente collegabili all’idea di «esclusività». La motivazione più bella di una simile scelta, me la diede un mio carissimo amico indiano, anglofono, naturalizzato italiano, che viveva con grande semplicità e spendeva moltissimo per la formazione dei suoi ragazzi: «L’istruzione che sto offrendo a mio figlio e a mia figlia è l’investimento più importante della mia vita, è l’investimento per la loro vita». Raj, non ha visto del tutto la "resa" del suo investimento, è mancato ai suoi troppo presto, ma la scelta che da padre aveva fatto e condiviso con sua moglie, si specchia oggi nella vita dei suoi figli. È un’eredità che non è andata dispersa e sulla quale è stata pagata, con sacrificio e felicità, una "tassa" aggiuntiva. Non credo di essere solo un romantico se dico che scelte di tal fatta debbano essere considerate una dimostrazione di ricchezza d’animo e d’intelligenza, non un possibile indice di sospetto. Ritengo, insomma, che non vadano in alcun modo scoraggiate. Perché mi sembra inconcepibile e inesorabilmente dannoso mettere l’istruzione dei figli – arrivo a dire in qualunque tipo di scuola – sullo stesso piano di una macchina di extralusso o di una supercrociera o dell’associazione a un qualche costoso circolo di "benessere". Ma vorrei allargare la riflessione. In Italia, quando si parla di «scuola privata» s’intende, un po’ per pigrizia e un po’ per malizia, davvero di tutto. La scuola privata propriamente detta, le scuole estere, le scuole paritarie... Ma quando di parla di «scuola pubblica» s’intende ostinatamente una sola cosa: la scuola statale. No, la scuola pubblica italiana è fatta di due realtà complementari: la scuola promossa dallo Stato e quella promossa liberamente dalla società e della quale la scuola di ispirazione cattolica è parte importantissima. Entrambe sono riconosciute «pubbliche» dalla legge vigente (fatta, per la cronaca, da un governo di centrosinistra), ma la scuola pubblica non statale – la scuola libera – è trattata, quanto a sostegno economico e a considerazione dei media, infinitamente peggio di quella statale. Costa meno di quest’ultima, svolge un servizio fondamentale e, anche, insostituibile (basti pensare a certe scuole materne), ma costa comunque cara alle famiglie che la scelgono e che finiscono per pagare due volte – con le tasse e con la retta – l’istruzione dei propri ragazzi. Quando parliamo di scuola e di fisco dovremmo pensare prima di tutto a questo. E segnalare che è lo Stato, sinora, a essere evasore rispetto a un dovere di legge: rendere effettiva l’affermata libertà educative delle famiglie e consentire anche ai meno abbienti di esercitarla. Si combatta a fondo l’evasione fiscale, ma si combatta anche la logica dell’inerzia che congiura a rendere la scuola libera un «lusso». Soprattutto per chi le tasse le paga.
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