mercoledì 6 maggio 2015
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Leggere lo sciopero del mondo della scuola come espressione di una resistenza al cambiamento sarebbe riduttivo. Così come sarebbe ingenuo non scorgere, tra quanti hanno protestato, componenti che hanno un’atavica allergia al cambiamento. Di certo il braccio di ferro andato in scena ieri tra scuola e governo vede quest’ultimo, che pure dispone di leve e controleve potenti in leggero svantaggio davanti alla mobilitazione che ha percorso il Paese. Ma, dall’altra parte, il fronte sindacale non può limitarsi a cantare vittoria: deve dimostrare di avere davvero a cuore le sorti del sistema scolastico italiano sostenendo il cambiamento.Al di là della logica "vincitori e sconfitti", resta il problema quanto mai urgente di portare al traguardo una riforma (anche se sarebbe più corretto parlare di "riordinamento") che la scuola italiana attende ormai da troppo tempo, rischiando di perdere ulteriore terreno rispetto alle altre realtà formative europee e mondiali. Il disegno di legge sulla "buona scuola" contiene elementi positivi e capaci di imprimere davvero una svolta: il potenziamento dell’autonomia, l’introduzione della logica della valutazione per migliorare l’azione educativa, la creazione di un organico docente funzionale per intervenire con maggior incisività in problemi quali l’abbandono scolastico, l’integrazione degli alunni stranieri non nati in Italia, la formazione permanente obbligatoria dei docenti. Temi su cui il mondo della scuola non ha sollevato questioni di principio, se non quando si tratta di entrare nel dettaglio di queste novità. Si prenda il caso del cosiddetto "preside manager": l’articolo 7 fissa i nuovi compiti del dirigente scolastico, ma poi all’articolo 21 rimanda il "come farlo" a una legge delega che compete al governo.Ecco uno dei punti su cui forse si incaglia anche lo spirito di cambiamento della realtà scolastica: l’eccessivo ricorso allo strumento della legge delega: ben tredici nel testo attualmente in discussione in commissione Cultura alla Camera. Una scelta comprensibile nella logica del governo tesa a incassare la riforma in tempi stretti, ma che lascia spazio a dubbi, perplessità e timori anche nel fronte disposto al cambiamento. E la fretta è legata all’altro grande tassello di questa riforma: l’assunzione di 100mila docenti precari. «Saranno in cattedra il prossimo primo settembre» assicurano dal ministero dell’Istruzione. Ma perché questo accada, il provvedimento deve diventare legge entro l’estate, altrimenti – almeno per un altro anno – l’assunzione a tempo indeterminato resterà un sogno per decine di migliaia di precari. Renzi lo sa bene, come è consapevole della partita politica che su questa riforma si sta giocando. Tutto lecito, si badi bene. Solo una domanda: non sarebbe meglio sdoppiare l’intervento? Da una parte un decreto legge che porti all’assunzione dei precari e dimostri come l’Italia sta affrontando il loro problema, rispondendo così alla sentenza della Corte europea che qualche mese fa ha condannato il nostro Paese per aver prorogato oltre i tre anni i contratti a tempo determinato di migliaia di precari (250mila secondo i dati dei sindacati). Dall’altra parte, il Parlamento potrebbe continuare nell’esame del provvedimento con maggior calma – ma con tempi comunque certi e definiti – e dialogo il cammino delle altre novità presenti nel disegno di legge. Percorso rischioso? Non meno di quello legato all’approvazione "troppo veloce" di un disegno di legge "vincolato" alle assunzioni e con troppe deleghe.Una scelta simile permetterebbe una volta per tutte di togliere qualsiasi alibi a coloro che invocano il cambiamento, salvo lamentarsi contro la riforma di turno. La scuola italiana ha bisogno di svoltare. Per diventare davvero una comunità educante.
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