L'immortalità del campione e la mortalità dell'uomo
martedì 8 gennaio 2019

«Forse lo fanno per non impressionarci», ha detto mia figlia adolescente. Ipotesi suggestiva. Se fosse così, sarebbe un estremo gesto di cura, protettivo nei confronti dei fan, a cui sta a cuore il destino di Michael Schumacher. Ma credo non sia così: siamo adulti e non impressionabili, anche se a volte qualcuno vuole farci credere il contrario. Capitò così anche per il caso di Eluana Englaro. Una vicenda drammatica accompagnata dalle foto di una ragazza sempre sorridente e in perfetta salute. È lo stesso anche per Schumacher. Scorrono le immagini del campione, nel pieno della sua prestanza fisica, del successo, mentre si parla solo di «migliori cure possibili». E la condizione? Quella non si vede e ci chiediamo perché. Si parla di miglioramenti, di una casa trasformata in un reparto ospedaliero, con professionisti che si alternano nelle cure. E i fan scrivono sui social: «Vorremmo solo sapere come sta». Ma c’è la privacy, c’è la scelta della famiglia, c’è il dolore privato.

Tra l’immortalità del campione e la mortalità dell’uomo, c’è una parte di mezzo che è la convivenza con la malattia che non è percorribile, se non per scelta. Allora si agisce per sottrazione. Chi era tanto amato e condiviso da tutti, sempre in proscenio, all’improvviso viene trattenuto in camerino. Tornerà alla ribalta? Lui non può tornare, anche se volesse. E tutti gli altri? Quelli toccati da vicende analoghe che sono in casa, ma hanno il coraggio di uscire con la loro menomazione e le famiglie che con loro lottano per un ruolo e una relazione nella società? Anche per loro c’è lo sguardo della gente, il rischio del pietismo, la riluttanza e il rifiuto, il pericolo dell’emarginazione. Che cos’è che impedisce di vedere come sta e come è ora Schumacher?

Forse la vergogna della malattia, la paura della dimensione umana che sfocia nel caso umano, la paura di scalfire quell’immagine del campione, del vincente, come a dire che la menomazione è sempre perdente. Come se questo dovesse capitare sempre ad altri e non sia un vestito adatto a un campione. L’unica apertura all’esterno è una Fondazione che porta il suo nome e che può essere di aiuto ad altri nella sua stessa condizione, non proprio uguale perché noi non la conosciamo. Possiamo solo immaginarla. È un paradosso: quello di aiutare altri come lui, negando quello che lui è.

Non se ne esce fuori. Proviamo a mettere insieme le notizie, ma non riusciamo a mettere a fuoco lo stato attuale di Schumacher. Perché vederlo non è soddisfare la curiosità, ma soltanto rendersi conto di una condizione della vita umana che guarda con rimpianto e struggimento al prima non essendo capace di affrontare il dopo; che è invece una sfida incommensurabile, comune a tanti comuni mortali, gente anonima, lontana dall’essere campione, con disponibilità economiche neanche paragonabili. Ma qui le ricchezze nulla possono. Non nell’immediato almeno, forse come fonte di sostegno alla ricerca che arriverà, in un futuro lontano, ma che in questo senso non 'guarirà' Schumacher.

Rimangono allora la faccia sorridente del campione, le parole di conforto degli amici, le immagini belle di un uomo e atleta straordinario. Sono stucchevoli, ferme nonostante il movimento, come di qualcuno che abbiamo perso definitivamente.

Sono semplici immagini, che a volte ci consolano, a volte no.

Direttore Centro Studi per la Ricerca sul Coma, Gli amici di Luca nella Casa dei Risvegli Luca De Nigris

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