venerdì 18 marzo 2011
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Un cammino condiviso. Nel giorno dell’Unità nazionale e della paura planetaria, l’invito alla riflessione venuto dal ministro Romani ha quantomeno avuto l’effetto di un gong. Alt, si fermino le polemiche strumentali e le enunciazioni apodittiche. Quel che è accaduto e sta accadendo in Giappone va troppo oltre la contrapposizione ideologica tra nuclearisti incrollabili e antinuclearisti apocalittici, resa più meschina da interessi di cortile. Il nucleare non è il demonio, eppure ciò che vediamo in queste ore evoca scenari infernali. Dunque non è neppure 'buono', banalmente innocuo, tecnologicamente rassicurante. In una sorta di 'ode al Giappone' pubblicata due giorni fa sul New York Times si invoca un ribaltamento delle scale di valori nel considerare le politiche energetiche, dando finalmente corpo alle raccomandazioni degli scampati ai bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki. «Unica nazione mai attaccata con ordigni nucleari, il Giappone ha la responsabilità morale di evitare tali opzioni energetiche pericolose». Non sono bombe innescate, le centrali atomiche, e vengono progettate e costruite con criteri e sistemi di sicurezza di generazione in generazione sempre più sofisticati. Eppure… Proprio là dove non sarebbe mai dovuto accadere, è bastato che la natura facesse il suo corso. Dirompente. Un terremoto devastante, un maremoto di una violenza mai immaginata. Ma in primo piano, in questo scenario da incubo, è balzata subito la potenzialità distruttrice dell’opera umana, con il suo seguito di bugie, mezze verità, incapacità a porre rimedio al disastro. Tutto previsto tranne l’imprevedibile. Ora il mondo ha paura, ora abbiamo paura. Paura di quelle reazioni che non si riescono più a controllare. Paura delle scorie, che irradiano morte per i secoli. Di più, paura di non poter più in futuro accendere la luce, di essere costretti a rimettere mano a un modello di sviluppo che succhia tanta energia quanta la natura e le tecnologie convenzionali non potranno mai offrire. Ecco qua il dilemma. Eccolo il nocciolo rovente che ha mandato in tilt le menti più illuminate del pianeta e di ogni singolo Paese, compreso il nostro. Interessi enormi in campo. Battaglie di anni giunte al confronto più scottante. Abbiamo bisogno di energia, per sopravvivere, per crescere o per gestire uno sviluppo più o meno consolidato. Ma abbiamo bisogno proprio di quella energia? Il sole, il vento, l’acqua, i rifiuti, magari an­cora il carbone e i suoi fumi. E il petrolio, il gas. Confidare sempre e sempre di più in risorse che sappiamo non infinite e che comportano dipen­denze economiche e geopolitiche sempre più soffocanti? Ma l’abbraccio atomico ci renderà liberi o si libererà di noi? E poi, dove? Se non nel mio cor­tile, dove? Ci sono esempi virtuosi di economie lo­cali fiorite grazie all’ingombrante ospite. Chi si fa a­vanti? E la 'corona' di centrali nucleari appena ol­tre i nostri confini che sicurezza offre? Gira la testa. Al cittadino comune, al padre e alla madre di fami­glia. E fors’anche ai politici, costretti a far prevalere su tutto le ragioni di schieramento e i calcoli pre­elettorali o referendari. Ed ecco allora che un semplice richiamo alla cal­ma, alla riflessione, alla razionalità di fronte a un e­vento imprevedibile e forse irripetibile appare ra­gionevole ma persino sorprendente. Sono scelte e­pocali, che si fanno oggi e guardano al domani e dopodomani. Abbassare toni e vessilli per ragiona­re sul futuro, tenendo a bada schieramenti e piccoli o grandissimi interessi di bottega non sembra un prezzo sproporzionato rispetto all’obiettivo. Forse già da domani la diatriba politica si rimangerà gli incerti margini concessi ieri, ma se avessimo fe­steggiato l’Unità senza passi indietro o in avanti, scendendo semplicemente dal piedistallo dei pro­clami per ritrovarci nel campo del confronto civile e ragionevole, potremmo aver ipotecato in positivo i prossimi 150 anni.
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