
Una croce sulla spiaggia di Steccato di Cutro - .
Mare impetuoso, forza cinque. Onde imponenti, fino a quattro metri. Venti gelidi e taglienti come lame, sopra i trenta nodi. Sono le “condizioni meteo-marine avverse” – per dirla in gergo marinaresco – con cui domenica gli equipaggi delle motovedette “Cp 303” e “Cp 321” della Guardia costiera si sono dovuti misurare per poter trarre in salvo centrotrenta migranti: 74 uomini, 27 donne e 29 bambini, partiti il 30 gennaio dalla Turchia su un vecchio peschereccio.
Quando è stato intercettato, a 90 miglia nautiche a sud-est di Isola di Capo Rizzuto, lo scafo andava in direzione del tratto di costa dove si trova la spiaggia di Steccato di Cutro. Un toponimo impresso nella memoria di milioni di italiani dal 26 febbraio 2023, quando su una secca di quel lembo di Calabria si infransero i sogni e le speranze di molte persone, annegate a pochi metri dalla riva. La strage di Cutro, così la battezzarono i media, contò 94 vittime accertate, compresi 35 minori, dieci dispersi e 81 sopravvissuti. Ora, a tre settimane dal secondo anniversario di quella tragedia, colpisce come questo nuovo evento sia quasi sovrapponibile – stessa rotta, stesso mare infuriato, stesso barcone stracarico, stesse nazionalità dei migranti (afghani, iraniani, iracheni e pachistani) e perfino lo stesso numero di bambini a bordo. Tutto uguale, insomma, a parte l’epilogo differente.
Due anni fa, nonostante Frontex avesse segnalato il barcone stracarico in arrivo, le vedette inviate per i soccorsi rientrarono per il mare grosso e non ne furono mandate altre. Domenica invece, in risposta a un sos di un telefono satellitare, il Centro regionale di soccorso marittimo di Reggio Calabria ne ha mobilitate due, una da Crotone e l’altra da Roccella Ionica, per intercettare il natante. Lo spezzone del video diffuso dalla Guardia costiera mostra un salvataggio da manuale, col trasbordo dei migranti in ipotermia (compresi bambini, un uomo disabile e una donna incinta), poi condotti in salvo a Crotone, dopo sette ore di navigazione.
Un’operazione di ricerca e soccorso compiuta nell’area Sar italiana, informa una nota, in “uno scenario operativo particolarmente complesso”. Due anni fa, purtroppo, non andò così. Ora, non tocca a noi giudicare: non siamo giudici, né giuria. Sulle presunte negligenze e omissioni di quella vicenda c’è, com’è noto, un’inchiesta della procura di Crotone. E fra un mese il giudice dell’udienza preliminare dovrà valutare se i sei indagati per disastro colposo e omicidio colposo (4 militari della Guardia di Finanza e 2 della Guardia costiera) debbano o no andare a processo, mentre i familiari delle vittime, che avevano cosparso di lacrime i feretri dei loro cari nel Palamilone crotonese, attendono giustizia. Nel frattempo, l’intervento con lieto fine di domenica ci dice qualcosa non di poco conto: stavolta, in “condizioni meteomarine” simili, c’è stata la volontà, anzi l’abnegazione di comandanti ed equipaggi di andare a cercare un barcone che poteva affondare.
Certo, le lancette dell’orologio della storia non tornano indietro. Tuttavia, mentre si avvicina il secondo anniversario dell’affondamento di Steccato, ci piace pensare che l’intervento di domenica abbia un valore simbolico, capace di sommarsi a quello già straordinario di aver sottratto alla furia del mare 130 vite. Un segnale, o se volete un segno, rispetto all’approccio di chi ha la responsabilità gravosa di valutare se affrontare i flutti per salvare altri esseri umani. Perché, se i tanti soccorsi in questi anni ci hanno mostrato come, quando il mare è in tempesta, occorrano coraggio, perizia e buona sorte, quello esemplare di due giorni fa in Calabria ci ricorda quanto sia importante, per prima cosa, scegliere di tentare.