giovedì 20 agosto 2020
Serve adattarsi con creatività, evitando che paura o depressione ci assalgano e abbiano la meglio. Ci è data l’occasione di misurare la vita secondo la possibilità di darle significato
L’accettazione operosa di una realtà imprevedibile e complessa è la sfida filosofica e morale che ci attende

L’accettazione operosa di una realtà imprevedibile e complessa è la sfida filosofica e morale che ci attende - Reuters

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Pubblichiamo il contributo della filosofa Paola Ricci Sindoni a «Custodire la memoria», il Quaderno n.21 che Scienza & Vita ha dedicato ai temi che interrogano la nostra coscienza «al tempo del Covid». ​L'intera pubblicazione può essere scaricata gratuitamente, in formato e-book o pdf: sul sito www.scienzaevita.org

Mi ritorna in mente – l’energia della memoria che si fa storia – una Pasqua di molti anni fa, quando con una moltitudine di giovani in preghiera riuniti nella piana di Taizé ascoltavo le parole lievi e profonde dell’allora priore della Comunità, frère Roger Schutz. Aveva in quei giorni distribuito un suo breve scritto ciclostilato, che ho invano cercato fra le mie innumerevoli carte. Si intitolava Vivre du provisoire e – lo ricordo bene – orientava a una meditazione sull’esigenza di vivere la propria vita come possibilità di dono di sé sino alla fine. A dire il vero, non compresi subito il senso di quella parola, la provvisorietà, che mi suonava piuttosto legata al rifiuto del duraturo, quasi una forma di disimpegno, oppure sinonimo di precarietà, di insicurezza, di incertezza verso il futuro. Pensavo allora che tale termine fosse più adatto a caratterizzare le difficoltà di trovare un lavoro, dell’ansia a costruire una famiglia, una casa, e tutta quella serie di bisogni e di desideri che affollano il cuore di un giovane.

Solo oggi, in tempo di crisi per la pandemia e la paura del contagio, ho capito – forse – qualcosa di più. Il provvisorio non era affatto per frère Roger lo spazio personale e sociale segnato dal transitorio, dal precario, dall’effimero, parole che oggi esprimono un sentimento di incertezza destabilizzante, come il richiamo angosciante alla finitezza dell’esistenza, tutto ciò insomma che certo stride con il desiderio di eternità che ci appartiene. Eppure quella lunga fila di camion dell’esercito che trasportano le bare – immagine emblematica di questo dramma epocale –, e ancora quei corridoi stracolmi di contagiati negli ospedali, affollati di medici e infermieri impegnati nella corsa contro il tempo per salvare vite umane, il blocco improvviso delle nostre esistenze, costrette a un forzato isolamento, tutto questo scenario dolorante non è forse il segno evidente della provvisorietà della nostra vita, della misura della nostra finitezza? E che dire dello strazio dei parenti, che hanno visto i loro cari ingoiati nei numerosi pronto soccorso, e infine restituiti in una urna cineraria? Quanta insicurezza e timore nello sguardo disorientato delle migliaia di degenti anziani, ospitati delle case di riposo e nelle Rsa?

Vivere di provvisorio, questo ci tocca oggi accettare, ridimensionando il potere dei nostri progetti, e anche denunciando i Grandi della terra che continuano a pensare come produrre profitti e a massacrare l’equilibrio del pianeta sempre più povero di risorse. Una lezione contro lo strapotere della scienza, contro l’idea che solo l’uomo è padrone, contro la convinzione che solo la ricchezza genera felicità. Inve- ce, piegata dalla potenza di un virus, l’umanità si ritrova terribilmente impotente e spaventosamente sola. L’urto di questa malattia infettiva non conosce frontiere e non fa distinzione di popoli e di razze: siamo tutti uguali e tutti mortali. Da qui la domanda: come non concepire il provvisorio come un tempo da accettare con una buona dose di sano fatalismo, nel-l’attesa di giorni migliori? E quando tutto finirà, non è giusto riprendere la vita di sempre con la speranza che, forse, diventeremo tutti più buoni? Si parla in proposito di sviluppare in questo periodo un’attitudine alla resilienza, per lo più considerata come una forma attiva di adattamento, visibile del resto nelle tante iniziative messe in atto e condivise sui social durante il lockdown: fare il pane a casa, imparare lo yoga seguendo corsi online, creare simpatici video con i figli, istruirsi con la scuola a distanza, addestrarsi con lo smart working, comunicare con i parenti mediante i vari strumenti informatici. Adattarsi, dunque, con creatività, senza che la paura e la depressione ci assalgano.

Ma forse c’è di più: la resilienza è anche capacità di attivare nuove forme di autenticazione di sé, che la vita di prima sembrava non offrirci; forse, e di più, questa infinita prova di resistenza rimette al centro una questione centrale: come vivere il tempo. Abituati a padroneggiarlo, come fosse nostro possesso, lo abbiamo usato come ritmo della nostra quotidianità, lo abbiamo cioè organizzato secondo la nostra volontà, non ricordando che il tempo non è una nostra proprietà ma qualcosa che ci è stato donato e che abbiamo ricevuto nel corso della nostra esistenza, per riempirlo di bene per sé e per gli altri. Abbiamo sentito dire: siamo in un tempo 'sospeso'. Ma siamo noi che talvolta non siamo capaci di riempirlo di senso, dal momento che il tempo si vive, non si possiede. Questa è la nostra grande opportunità, di misurare cioè il tempo secondo il bene da dare, secondo la possibilità di dotare di significato la nostra vita, ricordando – ecco la luce della memoria – che come il tempo, che giunge a noi gratuitamente, anche noi possiamo vivere di gratuità. Il tempo, certo, scorre secondo la 'sua' misura, ma dentro la sua marcia possiamo cogliere l’occasione di ricondurre a unità ciò che siamo e che vogliamo essere, ricordando, ad esempio, che non viviamo solo per noi, ma siamo fatti gli uni per gli altri.


La pandemia ha ridimensionato il potere dei nostri progetti: non siamo «padroni» della storia.
Torniamo a dare senso al tempo che viviamo. E al bene che si può fare

Non dobbiamo forse vivere di riconoscenza verso l’altro, con cui ogni giorno siamo stati costretti a vivere? E che dire del debito che noi abbiamo verso l’Altro, da cui abbiamo ricevuto il tempo? E non solo: dal Signore della vita abbiamo ricevuto anche il dono della relazione, la potenza del donare, la forza di riconvertire per sé e per gli altri il dolore in speranza di riscatto. Certo, il tempo continuerà a passare, ma nel giorno che passa qualcosa rimane, ossia il senso del nostro stare al mondo. Voleva dire questo, penso, frère Roger: cogliere la provvisorietà come possibilità di dono di sé, imparando dal tempo che ci viene incontro sempre gratuitamente, facendo di ogni momento un’opportunità di bene, rintracciabile nei piccoli gesti, come nella generosità amplificata di partecipare nei giorni della quarantena al grande progetto di sostegno ai poveri rafforzando in noi l’empatia nei confronti del dolore e della sofferenza. Nessun tempo 'sospeso', dunque, ma tempo vissuto, caricato di verità, quello che i credenti nel Risorto colgono come risposta certa all’oscurità di giorni che non vanno persi, non vanno dimenticati.

«Non lasciate che le tenebre vi parlino », ripeteva il priore di Taizé, pugnalato da una squilibrata, mentre pregava, il 16 agosto di 15 anni fa. Anziché cedere alla tentazione dello scoramento e della sfiducia, occorre fare memoria dei tanti gesti di bene di cui siamo stati fatti oggetto, pensare a quanti hanno bisogno di una parola, ricordando momenti di fede e di amore, che anche i bambini hanno il diritto di ascoltare. A questo serve la memoria: a ricordarci ciò che siamo – esistenze finite nel tempo – e anche ciò che dobbiamo essere, ossia testimoni del bene ricevuto e della verità che ci è stata trasmessa. Per tutto ciò abbiamo il dovere di raccontare, di dar conto cioè di quello che oggi siamo e che domani dobbiamo continuare a essere: fedeli e coraggiosi. Non occorrono discorsi alti né prediche: basta dire, in questo difficile periodo, come il tempo si è fatto per noi spazio largo di riflessione e di azione verso noi stessi e verso gli altri.

Nel versante occidentale del monte Herzl, a Gerusalemme, è stato costruito un grande Memoriale, lo Yad Vashem, dedicato alla raccolta di testimonianze delle vittime ebree nei campi di sterminio nazisti. All’ingresso una scritta: «La memoria rende liberi». Anche quando ricordare sembra riaprire le ferite, aumentare il risentimento verso i carnefici, far restare prigionieri di un passato che non passa. La libertà passa anche da qui: dal ricordo di quanti prima di noi hanno vissuto e amato, restituendoci il mondo in cui volentieri abitiamo. Ma di più: passa anche da quel bene diffusivo e gratuito che in questo tempo abbiamo sperimentato con commozione e speranza. La tentazione dell’oblio nasce al contrario, quando la paura paralizza disegnando scenari apocalittici del futuro, e sembra – quando questo disastro epocale sarà finito – la forma migliore di liberazione per il male che ci ha attraversato. Non cadiamo in questa trappola: insieme al dolore fuggiranno via le scintille di bontà e quel senso colmo della vita che ci è stato riconsegnato. Che ci sia data la forza di ricordare che dopo i giorni del Covid quel pane di bene spezzato (di cui è segno efficace il Memoriale del sacrificio della Croce) continua a essere conservato e a tutti distribuito.


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