domenica 13 aprile 2014
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Caro direttore, non ero ancora entrata in politica quando dagli Stati Uniti arrivarono le prime notizie sulle morti dovute alla pillola abortiva Ru486. Non era facile venirne a conoscenza: fino alla battaglia condotta dal padre di una delle vittime, la diciottenne Holly Patterson, si trattava di trafiletti di cronaca locale, ignorati dai più. Anche grazie ad 'Avvenire' abbiamo fatto sapere di quelle morti e abbiamo denunciato i rischi di un metodo abortivo che con troppa superficialità si voleva far passare come più sicuro e meno invasivo, e che ancora adesso viene spesso presentato come una «valida alternativa» a quelli già utilizzati. Ma se è vero che il modo con cui si interrompe una gravidanza non cambia la sostanza dei fatti – la soppressione di una vita umana – è anche vero che con la Ru486 si vuole trasferire l’aborto dall’ospedale a casa, rendendolo un fatto del tutto solitario e 'privato', impedendone la prevenzione e nascondendo – comunque la si pensi sull’«interruzione volontaria di gravidanza» – un grave problema sociale, che non riguarda solo le singole donne ma interpella tutti noi. La verità è che promuovere la pillola abortiva vuole dire mettere una bomba sotto la legge 194, per eliminare i (pochi) paletti che la legge pone. Il calcolo politico è semplice, e già sperimentato in Francia: poiché è politicamente difficile 'allargare' la legge sull’aborto, invece di passare dal Parlamento si modifica la prassi abortiva, introducendo nei fatti l’aborto a domicilio e scardinando l’impianto stesso della 194. In questo modo sarà facile sostenere anche in Parlamento che la legge è superata ed è necessario modificarla in senso più permissivo. Ricordo ancora quando nei consigli regionali e comunali delle Regioni governate dalla sinistra si votava per introdurre la Ru486, mentre la stessa casa produttrice della pillola non aveva nemmeno chiesto la commercializzazione in Italia!  Alla fine la pillola abortiva fu introdotta grazie a una procedura europea di «mutuo riconoscimento» a cui l’Italia non si poteva sottrarre. In quel periodo ero sottosegretario alla Salute, e il nostro Ministero (il ministro era Maurizio Sacconi), formulò linee guida in cui, sulla base di tre pareri del Consiglio superiore di sanità, si indicava la necessità di garantire, almeno, il regime di ricovero ordinario per l’intera procedura abortiva. Siamo stati accusati di essere gli unici al mondo a prevedere il ricovero per questo tipo di aborto, come se fosse una misura esagerata e inappropriata, ma intanto negli altri Paesi c’erano donne che morivano. A tutt’oggi contiamo 27 decessi a seguito di aborto chimico: 14 negli Usa, uno in Canada, uno in Portogallo, sei in Gran Bretagna, due in Francia, uno in Svezia, uno a Taiwan e uno in Australia. Ci sono poi altre 12 persone morte dopo aver usato lo stesso prodotto chimico per altri fini. La tragica morte della giovane donna piemontese è dunque la prima nel nostro Paese, ma la quarantesima complessivamente. Sappiamo dalla letteratura scientifica che la mortalità per aborto chimico è dieci volte superiore a quella per aborto chirurgico. Con l’autopsia, prevista per domani, della giovane donna conosceremo la causa immediata della sua morte, ma è difficile non ipotizzare una consequenzialità tra l’intervento abortivo e la morte. Sappiamo che la signora non ha seguito le indicazioni ministeriali: si è dimessa dopo la prima pillola, e al ritorno in ospedale per il secondo farmaco apparentemente stava bene.  La situazione è precipitata in poche ore, subito dopo la conclusione dell’aborto. È un copione, purtroppo, già noto, come sa chi ha letto le storie delle donne morte dopo aver abortito con la Ru486, per le quali finora non ci sono stati errori medici, ma complicanze ed eventi avversi. In questi anni abbiamo assistito a continue forzature delle Regioni per allargare l’uso della pillola abortiva: è urgente che la corsa all’uso disinvolto della Ru486 si fermi, ricordando che l’aborto non si può affrontare in modo ideologico e sbrigativo, magari anche privilegiando un metodo abortivo perché libera le strutture sanitarie dal peso dei ricoveri.
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