Papa Francesco e i casi di Alfie e Lambert
giovedì 19 aprile 2018

Per vivere servono poche parole. Alla fine, quando c’è da stringere sui casi seri della vita, le analisi complesse e gli algoritmi sofisticati devono cedere il passo alle disarmanti evidenze elementari che solo alcune parole antiche e sempre nuove sanno evocare, asciugando la complessità della questione senza tradirla, ponendo l’accento su ciò che è decisivo per il bene. Parole essenziali e incisive, che scavano la mente e il cuore dell’uomo come gocce d’acqua cadute per secoli sulla dura roccia.

Così lavora la Parola di Dio. E quella della Chiesa, che la riflette e la rilancia senza cesure con la tradizione, la attualizza senza venir meno alla fedeltà a questo prezioso tesoro di sapienza universale. Ieri mattina, al termine dell’Udienza generale, nel «richiamare l’attenzione» sulla drammatica situazione di due persone – il bambino britannico Alfie Evans, affetto da una grave malattia neurodegenerativa, e l’adulto tetraplegico francese Vincent Lambert, in stato di minima coscienza – papa Francesco ha voluto «ribadire e fortemente confermare» due verità appartenenti al depositum fidei ( et morum) senza ombra di dubbio alcuno: «l’unico padrone della vita, dall’inizio alla fine naturale, è Dio» e «nostro dovere è fare del tutto per custodire la vita» che Egli ha donato ad ogni uomo e donna, bambino e adulto, sano o malato che sia.

L’appartenenza della nostra vita a un Altro – e non al soggetto stesso, né ad alcun potere sanitario, giudiziario o politico – è espressa in innumerevoli passi della Sacra Scrittura, ripresi e commentati dai Padri e dai Dottori della Chiesa, dai pontefici e dai concili, e più recentemente da san Giovanni Paolo II nel secondo capitolo della Evangelium vitae. E la stessa Bibbia, sin dal suo primo libro, ci ricorda il dovere di custodire la vita dei nostri fratelli, di non consegnarli mai alla morte per azione od omissione nostra. Dio non accetta il tentativo di giustificazione di Caino – «Sono forse il custode di mio fratello?» (Gn 4, 9) – e afferma: «Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» (Gn 9, 5).

Nessuno può lavarsi le mani di fronte alla volontà di non prendersi cura fino all’ultimo istante dell’esistenza di un fratello nell’umanità e nella fede, per il quale non è irragionevole né impossibile, ove egli si trova o affidandolo ad altri, che riceva quanto gli è necessario per vivere tutti i giorni che Dio ancora gli concede in questo mondo, finché Lui solo ponga fine alla sua esistenza terrena e lo chiami a sé. Con la sua grande capacità di comunicare l’essenziale della vita e della fede con parole semplici e coinvolgenti, Francesco ha chiamato idealmente accanto a sé Alfie e Vincent.

E si è rivolto, in modo informale ma accorato, ai medici e ai giudici britannici e francesi coinvolti in queste due dolorose vicende, ai governanti, ai cittadini di ogni parte del mondo che le stanno seguendo con apprensione e ai fedeli che, proprio come il Papa, non cessano di sperare e di pregare. Tutti commossi dall’amore e dalla dedizione incondizionata delle madri e dei padri del bimbo inglese e dell’uomo francese la cui vita e la cui morte sono in qualche modo espropriate e, davvero, potrebbero essere ingiustamente decise da gelide norme di legge e da altrettanto gelide interpretazioni giudiziarie. Tutti sono stati toccati dalla confidenza in Dio di genitori che verso i figli nulla hanno dell’«accanirsi inutilmente contro la morte» e neppure esibiscono irragionevoli ostinazioni in pretese impossibili, ma che attingono forza dal «comandamento supremo della prossimità responsabile».

Assieme a papa Francesco, in tanti siamo consapevoli che l’amore di padri e madri e le robuste evidenze della scienza, della coscienza e dell’esperienza clinica e umana di moltissimi medici lungo i secoli e sino a oggi confermano ciò che il Papa stesso ci ha ricordato nel suo Messaggio ai partecipanti al Meeting organizzato a metà novembre 2017 in Vaticano dalla Associazione medica mondiale e dalla Pontificia Accademia per la Vita: se «della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita».

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