venerdì 21 giugno 2013
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Duecentosessantamila persone, quanto una città italiana di media grandezza: sono le vittime dell’emergenza alimentare che ha colpito la Somalia tra il 2010 e il 2012. Ma la più grave carestia africana dell’ultimo quarto di secolo non ha bucato il video né mobilitato la società civile, come accaduto altre volte in passato.Forse anche per questa ragione ieri, nel discorso all’assemblea della Fao, Papa Francesco ha parlato della necessità di affrontare la questione della fame nel mondo alla radice, con «un’opera di ricostruzione». Lo ha persino ripetuto, perché fosse inequivocabile. Su un tema del genere, del resto. non si può bluffare: non possono bastare le mezze misure, la commozione a intermittenza per i poveri bambini dell’Africa con la pancia gonfia, il grande evento di solidarietà (più o meno spettacolare), l’articolo strappalacrime sul femminile di turno e via di questo passo.Nell’udienza generale del 5 giugno il Papa già aveva denunciato la «cultura dello scarto» che «ci ha resi insensibili agli sprechi e agli scarti alimentari». Ieri è andato molto oltre. Se è vero che «milioni di persone che soffrono e muoiono di fame» costituiscono «un vero scandalo», è necessario che la comunità internazionale assuma questo dramma non come una «varia ed eventuale» di cui discutere a margine dei summit, bensì come un punto irrinunciabile dell’agenda politica. «Alla Fao, ai suoi Stati membri, come ad ogni istituzione della comunità internazionale – ha detto Francesco – è chiesta un’apertura di cuore». Curioso: l’«apertura di cuore» di solito si esige dalle persone, tutt’al più da gruppi e comunità. Applicato a contesti politici, a soggetti come le istituzioni internazionali quel binomio appare insolito, fuori luogo, quasi utopistico (quando mai s’è visto uno Stato «aprire il cuore»?). Eppure – insiste il Papa «preso dalla fine del mondo», che ha conosciuto di persona la fame e i suoi effetti – se ad un’autentica riforma si vuole procedere, non c’è alternativa. La produzione alimentare attuale è sufficiente, alla faccia dei malthusiani di turno; quel che non funziona è il meccanismo di distribuzione, tra «chi ha di più e chi deve accontentarsi delle briciole».Prendiamo l’accaparramento delle terre (land grabbing): quando Paesi ricchi (Cina, Paesi del Golfo…) investono all’estero per soddisfare il proprio fabbisogno, acquisendo terre coltivabili che, a quel punto, non produrranno più per le popolazioni locali, si crea uno squilibrio che penalizza fortemente i poveri.Altro fattore critico: la speculazione finanziaria sui generi alimentari. Ovvio che, sottolinea il Papa, «trattandoli come ogni altra merce, dimenticando la loro destinazione primaria», gli alimenti possono vedere i loro prezzi fluttuare secondo i capricci delle Borse. Ma così vincono «i miopi interessi economici e le logiche di potere di pochi», non certo il bene comune cui ogni realtà umana – dalla comunità locale all’organismo internazionale – deve tendere. Di qui l’auspicio-appello: «le relazioni internazionali ristabiliscano quel riferimento ai principi etici che le regolano e ritrovino l’autentico spirito di solidarietà». Il lettore attento avrà colto in questo linguaggio un riferimento diretto alla Caritas in veritate di Benedetto XVI: un documento coraggioso nel porre con forza, in nome sia del realismo che della fede, l’istanza della fraternità come la modalità più adeguata di rapporto nell’epoca della globalizzazione. Le organizzazioni internazionali, perciò, sono chiamate a ripensarsi dalle fondamenta: alla Fao, ad esempio, Papa Francesco chiede di continuare nella «riforma avviata per garantire una gestione più funzionale, trasparente, equa». Ma, siccome «gli uomini non sono isole», ciascuna persona è chiamata a chinarsi sul prossimo, arrivando a condividerne la sorte. Si tratta di scegliere di essere buoni samaritani, vincendo il nemico più insidioso: l’indifferenza.
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