giovedì 27 gennaio 2011
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Martin Buber nel 1938 scriveva: «Noi siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere». Il filosofo austriaco si riferiva agli ebrei, uniti nel corso dei secoli nonostante la diaspora e l’ostilità che li circondava. Ma la sua affermazione è forse valida per l’umanità nel suo complesso, perché non c’è futuro senza memoria. La celebrazione della Giornata della Memoria non è una commemorazione di circostanza, che rischia di logorarsi con il passare degli anni. Quel 27 gennaio 1945, data in cui il campo di sterminio di Auschwitz fu liberato, non è un giorno lontano, al quale tornare brevemente con la memoria ogni anno per un dovere etico, che in Italia è stato formalizzato undici anni fa con una legge dello Stato. È molto di più, perché ricordare, in questo caso, è anche vigilare. Dalla storia del primo Novecento è necessario cogliere un insegnamento decisivo: la Shoah è stata possibile perché il veleno dell’odio razzista aveva invaso tanti cuori, armato tante mani, reso indifferenti molti di fronte alla sofferenza dell’"altro", considerato diverso da sé. La Shoah è stata possibile anche perché la guerra mondiale aveva travolto ogni senso di umanità. Così come durante la prima guerra mondiale fu possibile lo sterminio degli armeni in Turchia. Un’Europa avvelenata dal razzismo e sfigurata dalla guerra ha permesso lo sterminio di una parte della sua popolazione, milioni di individui uccisi in nome di una loro presunta inferiorità razziale, uomini, donne, vecchi e bambini. È sempre necessario tornare con il pensiero, con la riflessione e anche con lo studio a ciò che è avvenuto in quegli anni. Nella Giornata della Memoria, risuona l’imperativo della tradizione ebraica: Zachor, ricorda! Oggi ricordiamo i sei milioni di ebrei uccisi nella Shoah. Ricordiamo le centinaia di migliaia di rom e sinti inghiottiti nel Porrajmos ("divoramento"), soprattutto ad Auschwitz, perché ritenuti dai nazisti asociali e inferiori. La Shoah ha trasformato in maniera indelebile la storia e il volto dell’Europa, in particolare dell’Europa orientale, spazzando via un intero mondo. Tuttavia dalle ceneri di Auschwitz è anche sorto il sogno di un’Europa in pace, senza confini e divisioni e ha preso avvio il processo dell’unificazione europea. La Giornata della Memoria spinge a costruire un mondo in cui non ci siano più persone discriminate per la loro etnia o per la loro religione e, al tempo stesso, è costruzione di una memoria collettiva, condivisa, che sia immune al virus del revisionismo. Per le nuove generazioni, nate e cresciute in un tempo di democrazia, l’Europa del periodo nazista può apparire così inverosimile da risultare irreale. Oppure può esser vista come una parentesi tragica della storia europea, un incredibile errore di percorso frutto di un impazzimento collettivo, dunque irripetibile. In questo modo, però, si finisce con il credere che ciò che è accaduto non ci appartenga, non sia la nostra storia. È una visione rassicurante, che fa abbassare la guardia. Ma è anche un’idea pericolosa, perché il razzismo e l’antisemitismo continuano a inquinare le nostre società europee. Preoccupa la diffusione dell’antigitanismo in Paesi come l’Ungheria e la Romania, ma anche nell’Europa occidentale. Il nostro continente non ha fatto i conti con lo sterminio nazista di rom e sinti, semplicemente l’ha rimosso. Oggi l’ostilità nei loro confronti è generalizzata in Europa ed è un allarmante indice di come le nostre società rifiutino ancora l’"alterità", vera o presunta che sia. Primo Levi, spiegando di aver scritto Se questo è un uomo di getto, affermava: «Il bisogno di raccontare agli "altri", di fare gli "altri" partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con altri bisogni elementari». Non per tutti è stato così: alcuni, come Settimia Spizzichino, ebrea romana sopravvissuta ad Auschwitz, hanno impiegato anni per trovare la forza di raccontare. Troppo doloroso era tornare con la memoria alla prigionia nel lager, ma ancor più urgente, infine, si è rivelato il bisogno di comunicare agli "altri", a coloro che non avevano vissuto direttamente quella tragedia. Ora che, a distanza di quasi settant’anni, la generazione dei testimoni sopravvissuti alla Shoah, si va esaurendo, l’urgenza di fare memoria non è certo minore. Perché solo ricordando e vigilando potremo epurare la nostra cultura da ogni razzismo.
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