domenica 24 gennaio 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Mi ha sempre colpito, e continua a colpirmi, una nota battuta di Chesterton: a chi gli chiedeva se ritenesse che la Chiesa dovesse essere governata «democraticamente», egli rispondeva: «Certamente sì; a condizione, però, che vengano ammesse al voto anche le generazioni passate». Una considerazione del genere credo che si possa applicare benissimo alla questione delle riforme costituzionali, su cui si tormentano, ormai da anni, politici e giuristi e che quindi è inevitabilmente divenuta tormentosa, nel senso peggiore del termine, anche per la pubblica opinione. Quanto più sentiamo ripetere da tutte le parti che tutte le riforme, ma soprattutto quelle costituzionali, dovrebbero essere «condivise», tanto più sembra che si allontani il momento in cui davvero esse possano realizzarsi. Sul punto della condivisione, grosso modo, sono tutti assolutamente d’accordo; ma tutti sono anche assolutamente d’accordo sul fatto che nessuno sa dire con chiarezza quale possa essere il contenuto di riforme che trovino davvero un consenso generalizzato. Naturalmente, neanche io so dare indicazioni in merito a questo punto davvero cruciale; provo perciò, con l’aiuto di Chesterton, a spostare la questione: riforme condivise, va bene, anzi benissimo; ma condivise da chi? Dalla generazione attuale (quella che manda i propri rappresentanti in Parlamento)? O non anche dalle generazioni passate (quelle che hanno eletto i membri delle precedenti legislature e soprattutto quelli dell’Assemblea Costituente, che ha redatto la Costituzione repubblicana)?Intendiamoci: con quella sua geniale battuta, Chesterton non pensava in nessun modo allo Stato; voleva semplicemente mettere in chiaro quanto la tradizione (cioè l’ «opinione» delle «generazioni passate») debba essere rispettata e venerata nella Chiesa e dalla Chiesa, senza peraltro che l’appello alla tradizione comporti la negazione dei diritti della generazione presente (nel radicarsi in una simile negazione consiste l’errore irredimibile dei fondamentalisti). Credo comunque che con minimi aggiustamenti la battuta di Chesterton si possa bene adattare ad una società civile, laica e non confessionale, che voglia riconoscersi in una Costituzione e ne voglia salvaguardare i valori, senza per questo degradarsi in un conservatorismo ottuso. La Costituzione infatti è ben più di quella «norma fondamentale», gerarchicamente posta al vertice dell’ ordinamento giuridico, di cui parlano alcuni costituzionalisti, accentuando il carattere formalistico delle loro analisi: il formalismo, infatti, se facilita lo studio delle norme, impoverisce la percezione della loro realtà storico-sociale. La Costituzione è la sedimentazione di quei valori nei quali un popolo si riconosce e attraverso i quali stabilisce la propria identità: non è, né può essere, il prodotto esclusivo di una volontà «generazionale», che una generazione successiva potrebbe legittimamente modificare, alterare, stravolgere; essa è piuttosto il prodotto della cultura e della spiritualità di un popolo, che giunge, in momenti forti della sua storia, a elaborarne una oggettivazione normativa, destinata a durare nel tempo, tanto quanto l’identità del popolo che in essa si riconosce. Per assumersi il ruolo di «costituente» si dovrebbe essere consapevoli di tutto questo; si dovrebbe saper parlare non solo in nome del presente e del futuro, percependone e attualizzandone le esigenze, ma anche e soprattutto del passato, rispettandone le valenze e (perché no?) la saggezza. Chi si chiude alla percezione del futuro e all’ascolto del passato, per lasciarsi suggestionare esclusivamente dalle urgenze del presente non potrà mai creare un buon diritto e meno che mai un buon diritto di rango costituzionale. Esiste nell’Italia di oggi una classe politica in grado di elaborare questa consapevolezza e di sapersene addossare le conseguenti responsabilità?
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: