domenica 8 gennaio 2012
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Dal buio di una casetta sgangherata, dal freddo di una baracca di legno e plastica, dal fango che invade una tendina, centinaia di occhi ci guardano e ci chiedono: «Perché?». Perché dobbiamo vivere da ultimi della terra, abbandonati, dimenticati, sfruttati? Perché per lavorare dobbiamo sopportare violenze, emarginazione, fame e malattie? Ce lo chiedono i più di duemila immigrati di Rosarno e di altri paesi calabresi. Dimenticati in fretta dopo la rivolta di due anni fa. Allora, svegliata dalla loro anche aspra protesta, l’Italia scoprì quel dramma che andava avanti da anni, e giornali e tv (ma Avvenire lo aveva fatto da tempo...) si riempirono di articoli di denuncia. Bene. Si promise che non sarebbe più accaduto, che sarebbe stata organizzata un’accoglienza civile per quei lavoratori e combattuto lo sfruttamento. Il governo scese in campo con rassicurazioni e progetti. Belle parole. Che, dopo due anni, tali sono rimaste. Nel 2010, sull’onda del clamore, si varò un piano straordinario contro il lavoro nero, con ben mille controlli sui posti di lavoro della zona. Nel 2011 sono stati appena 11. Eppure la condizione lavorativa non è certo migliorata. Mentre gli immigrati hanno trovato per dormire ('vivere' sembra un concetto eccessivo...) i soliti tuguri. Fabbriche abbandonate, casolari diroccati, casette pericolanti. Lo scarto dello scarto degli italiani. E attorno sono sorte le favelas di baracche e tende. Per centinaia di persone. Proprio da lì quegli occhi ci chiedono «perché?». Una domanda alla quale qualcuno deve saper rispondere. E in fretta. Con fatti concreti. Non basta, ancora una volta, la generosa bellezza dell’azione del volontariato cattolico. Non basta la solidarietà garantita da associazioni e parrocchie. Non basta la pur preziosa presenza di Emergency, l’unica novità di questo inverno. Che, anzi, è un ulteriore campanello di allarme se un’organizzazione come questa, specializzata in interventi in scenari di guerra e del Terzo Mondo, scende in campo in Calabria. È la conferma che in casa nostra c’è Terzo Mondo e c’è anche una guerra da affrontare. Quegli occhi ci guardano e con dignità ci chiedono, e chiedono soprattutto alle istituzioni, poche cose: regole e giustizia, cioè civiltà, cioè un lavoro regolare. Certo, in questi tempi di crisi, parlare di un lavoro in regola è un sogno anche per molti italiani, ma questo non può essere un alibi per lasciare tanti lavoratori immigrati nel ghetto. Per poi magari protestare se sporcano o disturbano (in realtà, pur in tanti, sono quasi dei fantasmi...). Quegli occhi ci guardano e ci dicono che questa non è vita e che non è giusto lasciarli soli, «come cani abbandonati». Sono le amare di parole di uno di loro, Mamadou, da 16 anni in Italia. «Non vi chiediamo da mangiare ma di poter lavorare in regola per poterci poi aiutare da soli». Ma bisogna fare in fretta, lo ripetiamo, per evitare che qualche provocazione (la ’ndrangheta certo non dorme) inneschi una nuova scintilla. C’è chi non aspetta altro. Fare un po’ di largo e, poi, il prossimo anno tornare ad arruolare per pochi euro gli 'schiavi degli agrumi'. Diamo una risposta a quegli occhi che ci chiedono solo di vivere come noi, come tutti. Da uomini.
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