Regolarizziamo gli invisibili d'Italia o per tanti sarà 'tutto peggio di prima'
mercoledì 22 aprile 2020

Caro direttore,
in questi giorni che l’isolamento ci concede per meditare, approfondire, ragionare, volevo condividere con te una riflessione nata anche dal tuo editoriale di domenica 19 aprile («Per far più sano il domani») e dalle parole che il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho ha affidato ieri, martedì 21 aprile, al tuo quotidiano, a proposito della possibilità di regolarizzare i lavoratori stranieri residenti nel nostro Paese in modo essenziale eppure ancora formalmente illegale. È vero: siamo tutti stanchi. C’è, anche, chi strepita. Il confinamento ci sta stretto, a volte si dimentica che il nemico è invisibile. Eppure, l’insidia è grande ma non la puoi toccare fisicamente. Discutono gli scienziati, s’affannano gli psicologi, i sociologi. Noi siamo qui a vedere l’arrivo di un mondo nuovo. La Fase 2. Come Cristoforo Colombo che non sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Tutto questo può essere persino stimolante ma lo senti, capisci che è staccato da terra. Sollevato sulla sciagura che è piombata su tanta gente. Restiamo, dunque, realisti. Guardiamo le cose in faccia. Senza retorica. E, allora, dobbiamo dire una cosa precisa: non è vero che il virus è democratico. Il virus sembrava aver livellato tutti, perché tutti siamo colpiti da identico destino. Non mi pare. Usciremo, gradualmente usciremo, cambieremo il modo di vita ma ci sarà chi avrà la schiena spezzata. Più degli altri. Molto di più. Chi aveva di meno, avrà sempre di meno. Ha già adesso molto di meno. Taluni, forse, nulla. Agli ultimi, toccherà davvero ripartire da zero. Siamo tutti sulla stessa barca, ma in condizioni diverse. Le classi non sono scomparse. C’è la prima classe, la seconda e anche la terza. Come sul Titanic. E le parole del Papa, sempre più frequenti sulle ingiustizie del mondo, ci dicono anche questo. Non ce lo fanno dimenticare. La classifica nel genere umano, nell’organizzazione sociale, è sempre odiosa. Il mio percorso, di vita prima ancora che professionale di medico, è sempre stato al fianco degli ultimi. Parlo dei migranti, ma non soltanto di loro. Parlo anche dei braccianti in nero, italiani o stranieri che siano, che fino a ieri coltivavano i nostri campi. Parlo delle badanti, spesso provenienti dall’Est Europa, che si prendono cura dei nostri anziani. Parlo dei rider, che ogni giorno raggiungono le nostre case in bici o in moto, parlo degli studenti che lavorano per pagare le tasse sino alla laurea, dei muratori privi di sicurezza, e dei tanti altri che ognuno potrebbe aggiungere a questo elenco. Invisibili per le regole. Troppi di loro illegali dentro il nostro vecchio mondo. Si dice: non tutto sarà come prima. Senza dubbio. Ma per molti sarà peggio di prima. Lasciamo stare la odiosa diatriba dettata dallo slogan “prima gli italiani”. Non c’è più tempo per questa narrazione che scava fossati, cerca nemici nella trincea del dolore e della disperazione. Nel nuovo mondo fischiano le pallottole sui bisogni primari e non c’è tempo, non hai il tempo di guardare il tuo vicino se ha la pelle di un altro colore, ma puoi vedere che è pallido come te, ha quasi vergogna di mettersi sul tuo cammino per sbatterti in faccia la realtà di questa “nuova” vita. Senza lavoro, senza futuro, senza la dignità dell’uomo. Bisogna, dunque, fare in fretta. E scrivere insieme nuove regole per una nuova vita, non c’è più tempo da perdere. Regolarità e dignità per tutti i lavoratori, siano essi italiani o meno. Affinché nessuno resti indietro nel mondo di domani. Affinché quella mascherina che tutti noi indosseremo per lungo tempo non diventi una tela per celare il pudore. Per nascondere la vergogna di essere soli, diversi e poveri di tutto.

Pietro Bartòlo medico a Lampedusa e parlamentare europeo di Demos-Pd

Ti sono grato, caro e onorevole amico, per il tuo appassionato eppure assolutamente lucido intervento in forma di lettera. Ho imparato a conoscere e a voler bene a te, al tuo impegno di cristiano e al tuo lavoro-missione di medico negli anni in cui hai presidiato la salute a Lampedusa. La salute di chi vive nell’isola e quella di chi ci è via via arrivato lungo le rotte della speranza e della disperazione dall’Africa. Anni in cui hai dovuto contare le vittime della tragica 'strada sotto il mare', quella gestita dai padroni – spesso con indosso una divisa da guardiani del (dis)ordine libico – del criminale traffico di esseri umani che è stato ed è propiziato da quanti non hanno saputo illuminare e rendere civile e ben regolata la via della fuga e della migrazione di uomini, donne e bambini in cerca di salvezza e di futuro. E con me hanno imparato a conoscerti e stimarti in tanti: Pietro Bartòlo, è un nome e una garanzia. Di serietà, di lealtà al giuramento di Ippocrate, di umano rigore. Condivido – come immagini – tutto ciò che scrivi sull’indispensabilie emersione dall’invisibilità dei lavoratori stranieri irregolari e dei lavoratori italiani altrettanto sfruttati e marginalizzati. E ti ringrazio per aver preso le mosse, nella tua argomentazione, dalle buone ragioni che abbiamo messo in pagina e dalla speciale autorevolezza del parere che, nell’intervista raccolta da Antonio Maria Mira, è stato espresso dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Spero che in Parlamento e al Governo, ma anche nella società civile e nel mondo dell’informazione tanti vedano con chiarezza l’importanza della questione e lavorino per rendere possibile questa uscita di tante persone da quell’ombra ambigua, che favorisce la cattiva imprenditoria, fa prosperare le mafie e, nel tempo del coronavirus, accresce anche i rischi sanitari. Grazie ancora.

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