sabato 28 giugno 2014
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Anche se attenuate da un’informazione prudente, le guerre che dilaniano il Mediterraneo e l’Europa si moltiplicano, spingono a riflettere sulla crisi delle relazioni internazionali. Ogni conflitto potrebbe avere specifiche ragioni. La guerra civile in Ucraina sembra un riverbero della vecchia "guerra fredda" e l’implosione dell’Iraq, per alcuni commentatori, sarebbe frutto delle scelte di George W. Bush e della continua destabilizzazione dell’area. La Siria ha evitato un’escalation militare devastante, ma è tormentata da una guerra civile che annienta popolazioni d’ogni etnia e fede religiosa, cristiani in primo luogo. La Libia ha perso la qualità di Stato unitario, somiglia più a un agglomerato nel quale ogni gruppo comanda su pezzi di territorio conquistati. Tuttavia c’è qualcosa di più, c’è un filo conduttore che unisce i conflitti, tende a cronicizzarli, lasciandoci come spettatori che non sempre sanno distinguere il bene dal male, né orientarsi sul che fare.Da tempo registriamo l’incapacità di Stati e soggetti internazionali di coltivare una visione strategica delle relazioni mondiali, di prevenire i conflitti, capire le ragioni degli altri, negoziare con apertura al compromesso. È prevalsa in Libia un’antica ambizione egemonica di piccole e grandi potenze, ansiose d’incassare l’eredità del dittatore Gheddafi. In altri Paesi l’accettazione acritica di movimenti inclini al fondamentalismo ha provocato delusione, nuove dittature, ancora violenza. In Ucraina s’è eretto un muro che evoca la divisione tra Est e Ovest, mentre l’Europa nel suo insieme non riesce a far fronte ai drammi di un’immigrazione che caratterizza stabilmente la nostra epoca. Sembra a volte di tornare all’Ottocento quando ciascun governo agiva secondo i propri interessi, muovendo aerei e corazzate, inconsapevole delle conseguenze che ne derivavano. Si finisce così per dimenticare quei diritti umani che sono la conquista realizzata contro i totalitarismi del Novecento: quasi una perdita della coscienza, una caduta verticale di lungimiranza nelle relazioni internazionali.Eppure, una visione strategica diversa esiste, la ritroviamo in filigrana nell’azione continua e profetica che Papa Francesco svolge sulla scena mondiale, in qualche caso con successi immediati, sempre prospettando valori fondanti d’un ordine mondiale condiviso. L’8 luglio del 2013 Francesco parla a Lampedusa a favore degli immigrati che vengono in Europa perché «cercano un posto migliore per sé e per le loro famiglie ma trovano la morte», mentre noi ci sentiamo tranquilli nella cultura del benessere, nella «globalizzazione dell’indifferenza» che toglie anche la capacità di piangere.Il mondo è scosso dalle parole del Papa, qualcosa di nuovo e di coraggioso si fa, soprattutto per merito dei due ultimi governi italiani. Nel settembre del 2013, quando tutti sono rassegnati, la guerra in Siria è quasi scontata, il Papa supera ogni strettoia geopolitica, chiama tutti alla preghiera e al digiuno per la pace, invia un messaggio al G20, a Vladimir Putin che lo presiede, evoca i «troppi interessi di parte che hanno prevalso da quando è iniziato il conflitto», invita i leader mondiali «a superare le contrapposizioni e abbandonare ogni vana pretesa di una soluzione militare». Aggiunge: «I molti conflitti armati che affliggono il mondo ci presentano, ogni giorno, una drammatica immagine di miseria, fame, malattie e morte; infatti, senza pace non c’è alcun tipo di sviluppo economico». L’iniziativa di Francesco contribuisce a fermare la clessidra della guerra, inizia a Ginevra un negoziato che però si consuma presto, e il Papa torna a chiedere di eliminare le cause di una guerra civile che non finisce mai.Abbiamo, infine, ancora davanti agli occhi l’evento straordinario dell’8 giugno, quando si realizza a Roma, in Vaticano, l’incontro di preghiera dei presidenti israeliano e palestinese, Shimon Peres e Abu Mazen, con Papa Francesco e con Bartolomeo I, diretto a far avvicinare le persone, implorare insieme Dio perché si risolva il lungo conflitto che divide il Medio Oriente da decenni. I commenti della stampa sono positivi, ma non mancano giudizi sfumati che valutano le iniziative del Papa generose, ma astratte, lontane dai problemi reali. Eppure, proprio lo scenario internazionale suggerisce che nell’agire spirituale del Papa c’è il massimo di realismo: perché va al cuore dei problemi, che non sono mai solo economici, militari, e muovono regolarmente da un grumo di valori trascurati, violati, come fossero ininfluenti.Chi agisce spiritualmente rovescia le cose, offre un’altra prospettiva. È avvenuto tante volte nella storia cristiana, quando l’annuncio del Vangelo è giunto in ogni angolo d’Europa dove non c’era nulla, tutto era buio, povertà, ignoranza, e con il Vangelo si sono poste le basi del vivere civile e sociale, s’è diffusa conoscenza, spiritualità, diritto, nuovi rapporti tra gli uomini.Questa capacità profetica non appartiene al passato, si ripresenta nel secolo XX con risultati ritenuti impossibili, con svolte storiche decisive. Il coraggio di Kennedy e Kruscev, propiziato dall’azione di Giovanni XXIII, risolve la crisi dei missili a Cuba nel 1962 e allontana il rischio nucleare. La lungimiranza di Paolo VI dà nuova centralità ai popoli esclusi dallo sviluppo, e nel 1965 offre una «ratifica morale solenne» all’Onu come istituzione universale, invitandola a governare il mondo secondo giustizia e nel rispetto dei diritti umani. La visione profetica di Giovanni Paolo II negli anni 80 propone ciò che alcuni considerano visionario, di cancellare le divisioni d’Europa, e il coraggio di Gorbaciov e di Kohl al momento della caduta del muro di Berlino permette negli anni 90 di porre fine a tutte le dittature e di avviare l’unità del Vecchio Continente.È questo il cuore del messaggio che Papa Francesco invia ai popoli: le difficoltà del mondo multipolare non ostacolano le più grandi speranze se si abbandonano egoismi e tatticismi, e si coltivano valori universali, a vantaggio di tutti, a cominciare da chi deve recuperare ritardi storici sui Paesi più ricchi.
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