mercoledì 28 marzo 2012
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Gentile direttore,
«Un uovo oggi o una gallina domani?». Di fronte al veloce, ineluttabile incalzare della crisi, della recessione, la gente comune, specie adulta, si adegua, sfugge, svicola, si imbosca... rallenta. Se infatti l’età della pensione, quella cui si affidavano finora tutte le migliori aspettative, diventa aleatoria, quasi un miraggio, tanto vale anticiparne i pregi per quanto e come si può. Ciò equivale di fatto a rallentare. Così molti richiedono il part-time e cercano di aumentare e capitalizzare il tempo libero per la propria cura e il proprio benessere, per la famiglia, per un’eventuale alternativa, per provvedere in prima persona ai bisogni non più acquistabili sul mercato, per riscoprire la socialità, per mettere mano infine ai beni accumulati (se son molti) che rischiano l’abbandono e l’obsolescenza... e liberarsi della cianfrusaglia. Troppi libri, troppi vestiti, troppo cibo, troppi strumenti, troppi beni insomma da fruire subito. Se si voleva mettere alla frusta gli italiani per farli lavorare di più, per asservirli al mercato globale, alla competizione universale, si son sbagliati i conti. Come il buon cinese, conviene attendere seduti che la corrente porti il cadavere dell’homo competitor. Si può resistere alle pretese della burocrazia europea e alla speculazione finanziaria mondiale a oltranza, basta – sta accadendo già – rallentare e partecipare: «Corvo Rosso non avrai il mio scalpo!».
Carlo Rossi, Firenze
C'è chi può rallentare, gentile signor Rossi, e chi non può nemmeno pensare di farlo. Semplicemente perché – resto nella sua metafora – è giù da qualsiasi mezzo di locomozione e, se a piedi, non è in condizione di correre. Voglio dire che la civiltà economica del troppo e del troppo veloce propone stili e ritmi di vita che insidiano terribilmente una parte importante della nostra porzione di mondo, ma la condizione del troppo poco e del troppo lento continua a mortificare ingiustamente una parte assai più grande dell’umanità, persino qui in Italia (e non penso soltanto a chi è venuto da lontano a vivere, a lavorare e a sperare tra noi e con noi, ma anche a tanti nostri concittadini per nascita). Trovo però molto stimolante il complesso del suo ragionamento nel quale leggo un appello a recuperare, come virtù personale e sociale, una giusta misura nel nostro vivere quotidiano. Non credo possibile tornare indietro, ma penso anch’io che per “essere” giusti e capaci di interpretare bene il futuro si debba tornare ad “avere” in modo sensato e a “stare” a quote più normali. Con Stefano Zamagni, che indica da tempo questa direzione di marcia, credo necessario lavorare a un lungimirante e vincente capovolgimento: dalla società del ben-essere a quella dell’esser-bene. È una metà concreta, non un sogno, ed è la buona via per continuare a crescere, senza necessariamente rallentare e anche con un sano tasso di ineliminabile e libera competizione. Che – è vero – fa rima con la più brutale speculazione, ed è la rima sbagliata, ma anche con partecipazione, costruzione e – con un po’ di generosità e fantasia – con comunione. E queste, soprattutto per noi cristiani, sono le rime giuste.
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