Ragazzi al lavoro sfruttati. Ma, più delle norme, contano le persone
martedì 3 luglio 2018

Caro direttore,

siamo al caporalato anche per i nostri giovani. Vengono assunti per tre quattro mesi. Quattro euro l’ora. Sul contratto 3640 ore settimanali. Ma le richieste di straordinario sono all’ordine del giorno. Qualche volta retribuito. Turni fino a 13 ore al giorno. Gli altri assunti a progetto. Il nervosismo e il malumore sono inevitabili. Il ricatto del licenziamento o della cattiva reputazione obbligano al silenzio. Qualcuno ricorre agli psicofarmaci altri ad altre sostanze. I posti di lavoro sono lager. Non sto esagerando. Purtroppo. Il caporalato legale sui nostri ragazzi chi lo fa presente e lo racconta? Fino a quando le famiglie genitori e nonni potranno reggere a tale pressione psicologica ed economica? Grazie.

Rosy

Gentile signora,

il direttore mi incarica di risponderle e devo confessarle che, di primo acchito, leggere di “caporalato anche per i nostri giovani” mi ha lasciato molto perplesso. Il termine descrive infatti un rapporto di lavoro malato, illegale, di grave sfruttamento, caratterizzato dalla netta sudditanza del lavoratore nei confronti di un mediatore (il caporale, appunto) e di un “padrone” a causa di forti pressioni economiche e di vera e propria violenza fisica. I casi di cronaca in questi anni sono stati purtroppo ricchi di tragici esempi: dalle donne romene violate e costrette a lavorare nelle campagne del ragusano, ai polacchi malmenati e uccisi in Puglia, ai neri sfruttati fino alla morte per fatica in Calabria. Un fenomeno che riguarda principalmente gli stranieri, regolari e no, presenti nel nostro Paese. Ma non solo, come ha messo tragicamente in evidenza la morte di Paola Clemente – uccisa dal caldo, dalla fatica e dalla troppe ore di attività non adeguatamente retribuite – in una vigna di Andria il 13 luglio del 2015. Una morte, la sua, che diede l’ultimo impulso all’approvazione della legge per contrastare le forme di sfruttamento della manodopera, la cui applicazione oggi va estesa e non certo limitata o depotenziata come invece sembrerebbe volere una parte del nuovo governo. La sua denuncia di un “caporalato per i nostri giovani”, perché lavorano, con contratti regolari seppur a tempo determinato, con “straordinari a volte pagati... fino a 13 ore al giorno” mi sembra utilizzare in maniera un po’ azzardata un termine che rimanda a una realtà assai più difficile e complessa. Personalmente, ricordo che all’inizio della mia attività, con assai meno tutele rispetto ad adesso, ero io stesso a scegliere di lavorare 13 ore al giorno, a saltare riposi e restare fino a tardi in redazione, non fosse altro che per imparare, marcando stretto chi era più bravo e cercando di “rubargli” il mestiere. So benissimo, però, che è inutile dire “ai miei tempi” e che un problema di sfruttamento dei giovani lavoratori esiste. Nelle tante attività sottopagate della gig economy (l’economia dei lavoretti) ma non meno in blasonati studi professionali e di consulenza, in cui i praticanti e i giovani laureati vengono letteralmente “spremuti ” e assai poco remunerati. Ora il ministro Di Maio è intenzionato a intervenire quantomeno sui (troppi) rinnovi dei contratti a termine. Vedremo quali risultati produrrà il cosiddetto “decreto dignità”, approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri, che punta a ridurre l’eccessivo ricorso ai contratti a termine e a tutelare i giovani lavoratori (ne riferiamo a pagina 9). Ma resto convinto che, più ancora delle norme, sempre aggirabili, a garantire la dignità del lavoro siano anzitutto e fondamentalmente le persone. I lavoratori, impegnati senza furbizie e pigrizie, gli imprenditori onesti e responsabili. Entrambi chiamati a fare di un’azienda, un ufficio o un magazzino, prima di tutto una comunità.

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