sabato 23 luglio 2011
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La legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento deve ancora essere definitivamente approvata al Senato, dopo le modifiche apportate dalla Camera dei deputati, e c’è già chi ha annunciato un referendum per abrogarla. Addirittura, qualcuno fra i più zelanti nemici della legge ha dichiarato la propria mobilitazione preventiva fin da questa settimana per raccogliere le firme, come se le consultazioni popolari si potessero svolgere su norme non ancora in vigore: basterebbe questo per dare l’idea della carica ideologica che c’è dietro certe posizioni sedicenti liberali.In realtà questa sulle Dat è una delle leggi più condivise della legislatura, approvata, in entrambi i rami del Parlamento, da ampie maggioranze trasversali, quasi sempre con voto segreto, a garanzia della libertà di coscienza dei singoli parlamentari: eppure, secondo i suoi detrattori, sarebbe una norma voluta contro la maggioranza degli italiani, da un Parlamento lontano dal sentire comune della gente. E i cosiddetti "grandi giornali" sono lì a far da grancassa.Evidentemente quanto successo con la legge 40, sulla procreazione medicalmente assistita, non è servito a far capire che in democrazia il Parlamento, di solito, per quanto eletto male, esprime e rispecchia la volontà popolare assai più di certi sinedri di presunti Soloni e di autoproclamati illuminati. E che le voci chiassose e i toni aspri, sentenziosi e violenti di chi si ritiene unico e legittimo portavoce dell’opinione pubblica spesso non hanno niente a che fare con gli effettivi orientamenti dei cittadini.Minacciare fin da ora l’intervento dei giudici per eliminare una legge largamente condivisa non è buona cosa, innanzitutto per l’indipendenza della stessa magistratura, tirata per la toga sempre per demolire le leggi che sono considerate ispirate da princìpi cattolici, e continuamente  contrapposta a chi siede nelle assemblee elettive. Un atteggiamento che non aiuta chi, come noi, ha rispetto per la funzione che i giudici svolgono e vuole continuare a fidarsi di loro.Ma se veramente, una volta superato l’ultimo passaggio in Senato, si andrà a una consultazione popolare, allora verificheremo quanto il nostro Paese è a favore dell’eutanasia. Perché l’obiettivo dichiarato di chi sta già parlando di referendum è quello di introdurre in Italia il «diritto a morire», e di una «morte medicalmente assistita» all’interno del servizio sanitario nazionale.Affermare che una sacca di acqua zuccherata, o anche di un preparato alimentare, possano essere definite terapie, è una forzatura: servono solo a non far morire di fame e di sete. Alimentazione e idratazione, comunque somministrate – sondino o cucchiaio – non hanno mai curato nessuna specifica patologia, e per questo non sono terapie. Chiedere di interromperle a una persona incapace di esprimere il proprio consenso attuale significa voler applicare una tecnica eutanasica, sia pure di tipo passivo. E chiedere il diritto a morire obbligando il medico ad esaudirlo – come vorrebbe chi protesta perché le Dat non sono vincolanti per il medico stesso – equivale a depenalizzare il suicidio assistito. Si pretende che il Servizio sanitario nazionale, e dunque lo Stato, somministri la morte, magari ricostruendo la volontà del soggetto, come nel caso di Eluana, sulla base degli "stili di vita". Per questo, se referendum sarà, è sull’eutanasia e sul suicidio assistito che il Paese sarà chiamato a pronunciarsi, ed è bene dirlo a chiare lettere, senza nascondersi dietro alle parole.Se questa legge entrerà in vigore, nessun accanimento terapeutico sarà incentivato ma non sarà possibile un’altra morte come quella di Eluana Englaro: non si tratta di vendetta, come è stato detto in modo infelice (e anche offensivo) in questi giorni, non è questo il lessico né l’atteggiamento di chi ha accudito Eluana per tanti anni, e certo non è l’intenzione di chi avrebbe voluto che Eluana continuasse a vivere. Queste norme sono un presidio di giustizia e di civiltà, di rispetto e – lo diciamo con pudore – di amore.
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