giovedì 17 gennaio 2013
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La sentenza n.1 del 2013 della Corte costituzionale è destinata a fare storia sia sulle prerogative del Capo dello Stato, sia sui limiti all’attività della magistratura requirente (in particolare in materia di intercettazioni telefoniche e di protezione della riservatezza dei cittadini e dei titolari degli organi costituzionali), sia – infine – sul tema più generale dell’interpretazione della Costituzione. Ciò ben al di là della specifica vicenda (le intercettazioni casuali di quattro telefonate fra il presidente Napolitano e l’ex presidente del Senato Mancino, disposte nell’ambito delle indagini preliminari relative alla cosiddetta 'trattativa Stato-mafia') che era all’origine del conflitto di attribuzione fra il Quirinale e la Procura di Palermo risolto con la sentenza, la quale, per questo profilo, si presenta come una «sentenza additiva», pur al di fuori del giudizio sulle leggi.
Il primo punto da sottolineare riguarda la posizione costituzionale del Capo dello Stato, che la Corte definisce come una «magistratura di influenza e di persuasione», sottolineando che «tutti i poteri del Presidente della Repubblica hanno lo scopo di consentire allo stesso di indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a questi, ma avviando e assecondando il loro funzionamento, oppure, in ipotesi di stasi o di blocco, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali». Si tratta di una visione condivisibile, in quanto essa presuppone la natura parlamentare della nostra forma di governo, in cui il ruolo di direzione della politica generale spetta a Governo e Parlamento. Secondo la Corte, «il Presidente della Repubblica 'rappresenta l’unità nazionale' (art. 87, primo comma, della Costituzione) non soltanto nel senso dell’unità territoriale dello Stato, ma anche, e soprattutto, nel senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica.
Si tratta di organo di moderazione e di stimolo nei confronti di altri poteri, in ipotesi tendenti a esorbitanze o a inerzia». Ciò dovrebbe, però, portare a dubitare di quelle ricostruzioni del ruolo presidenziale che vi hanno visto un organo di «indirizzo politico costituzionale», chiamato talora a decidere in ultima istanza come correttore degli orientamenti del governo e della sua maggioranza, ad esempio nell’adozione dei decreti-legge (la memoria non può non tornare alla vicenda Englaro e al rifiuto assoluto di emanazione di un decreto legge da parte del presidente Napolitano, che pare incompatibile con il suo ruolo di – pur incisiva – magistratura di influenza, e non di garante ultimo della Costituzione – compito questo che spetta invece alla Corte costituzionale).
Qualche perplessità solleva anche l’idea che lo svolgimento di queste attribuzioni presidenziali richieda una garanzia «assoluta» della riservatezza delle comunicazioni del Capo dello Stato: secondo la sentenza n. 1 del 2013, il corretto svolgimento, da parte del Presidente, delle sue attività «informali», poste in essere quale organo di moderazione dei conflitti politici, richiederebbe la loro incondizionata sottrazione alla conoscenza di terzi. Ma se la democrazia è il «governo del potere pubblico in pubblico» (Bobbio), è forse necessaria maggiore prudenza rispetto all’idea di una riservatezza assoluta per gli atti informali del Capo dello Stato, che rischia di essere configurato come una specie di «grande tutore occulto della Costituzione». Tanto più in quanto nel diritto vivente si registra un indebolimento delle garanzie di riservatezza sia dei cittadini, sia dei titolari di altri organi statali, per alcuni dei quali (come il Presidente del Consiglio, responsabile del coordinamento generale della politica interna ed estera) sembrerebbero esistere imperativi non meno impellenti per una tutela differenziata.
Vi è il rischio di produrre un assetto squilibrato su un tema cruciale, posto all’incrocio fra privato e pubblico, fra esigenze di efficienza degli organi costituzionali e di controllo democratico sui governanti: al Presidente, in questo contesto, sono riconosciute tutele eccezionali, che la ricostruzione del suo ruolo operata dalla Corte non riesce del tutto a giustificare. Nella sentenza vi sono anche interessanti affermazioni sulla natura suprema della Costituzione, e sulle peculiarità della sua interpretazione. Ma anche qui forse la Corte si è spinta troppo avanti nell’enfatizzazione da un lato del ruolo del diritto non scritto e dall’altro della cosiddetta interpretazione delle leggi «conforme a Costituzione», che è spesso il cavallo di Troia attraverso cui passano le acrobazie più ardite dei giudici comuni, con svuotamento, talora, delle prerogative del legislatore democratico (quando non della stessa Corte costituzionale).
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