sabato 12 aprile 2014
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​Una sentenza, quella della Consulta sulla fecondazione eterologa, attesa con speranza e preoccupazione da molti, e da tempo. Auspicata o temuta che fosse, da mercoledì è realtà giuridica. Ne prendiamo atto con il rispetto che si deve a ogni autorità dello Stato, anche quando la coscienza morale e civile e la passione per il bene di tutti i cittadini, in particolare dei più piccoli e deboli, ci impongono alcune severe considerazioni. L’intenzione che le muove è quella di non chiudere la partita che ha visto giocare opposte argomentazioni su un terreno – quello della domanda genitoriale e dell’offerta biomedicale in relazione all’infertilità di coppia – reso scivoloso dalla pioggia emotiva e sentimentale generata da alcuni casi e pronunciamenti giudiziari, portati alla ribalta attraverso i mass media, e dalle intemperie politiche che hanno soffiato contro la legge 40 sin dalla sua approvazione dieci anni fa. Una partita decisiva per il tessuto della società più che per la coerenza dello Stato, per l’esistenza e la dignità umana ancor prima che per l’ordinamento giudiziario, perché la generazione di un figlio è l’atto sorgivo e fondamentale della vita di un popolo. Per questa robusta e buona ragione, è un atto umano carico di responsabilità verso il figlio e l’intera società civile, di fronte al quale non si può passare oltre senza un’implacabile attenzione.Non conosciamo ancora le motivazioni del dispositivo, ma questo in parte le suggerisce e le anticipa. La questione di fondo – rimasta in ombra nei commenti apparsi sulla stampa nazionale – è che i giudici della Consulta, nel riflettere sulle questioni che originano dalla procreazione medicalmente assistita, hanno prestato attenzione prevalentemente all’interesse volitivo e al "diritto (non fondativo né esigibile) al figlio" degli aspiranti genitori, e hanno tenuto fuori dalla considerazione dirimente l’interesse costitutivo e il diritto fondamentale dei bambini che vengono alla luce attraverso la fecondazione eterologa. Con questa procedura si creano molteplici figure genitoriali, obiettivamente alternative e potenzialmente concorrenziali tra di loro. Al di là di ogni ulteriore considerazione antropologica, etica e giuridica, occorre riconoscerlo: di fatto, l’esito dell’eterologa è una destrutturazione e disarticolazione delle relazioni familiari e, dunque, sociali (qualunque accezione di "famiglia generativa" e "cellula sociale" venga adottata).Fare riferimento semplicemente al diritto alla salute riproduttiva della coppia sterile ad avere un figlio sano o a essere uguale a tutte le altre coppie, oppure appellarsi al principio di autodeterminazione in materia procreativa, significa enfatizzare un aspetto non certo prioritario della complessa questione. Se vi è un luogo comune della civiltà e della cultura giuridica sul quale oggi tutti convengono è proprio questo: i diritti fondamentali dei bambini devono sempre essere considerati prioritari e adeguatamente tutelati e promossi. Lo ha ribadito anche la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo. Nella fecondazione eterologa i diritti dei piccoli vengono messi da parte, sacrificati agli interessi (nel migliore dei casi pur nobilissimi) dei grandi. È evidente che i giudici della Corte si sono trovati di fronte al delicato problema del bilanciamento tra gli interessi della coppia e i diritti del figlio, entrambi ritenuti meritevoli di tutela e tra loro in conflitto. Il peso dato agli interessi procreativi appare ancor più sbilanciato se si considera che, come tutti i desideri e gli interessi della persona, questi possono mutare nel tempo o trovare diversa soddisfazione (si pensi al ricorso all’adozione o al formarsi di una nuova coppia, non più sterile a motivo del nuovo partner, nel caso di seconde nozze), mentre alcuni diritti fondamentali del figlio, se violati già al concepimento, non potranno venire ristabiliti successivamente: non si può essere "rigenerati" nella carne; eventualmente, si può solo venire "adottati", cioè accolti nell’amore. Tra i diritti nativi vi è quello ad avere una madre e un padre certi sotto il profilo genetico, sociale e giuridico, e alla conoscenza delle proprie origini e dell’identità biologica.Nel richiamare queste evidenze elementari non siamo privi di «rigore e lucidità» perché prigionieri «di un provincialismo culturale che impedisce a molti di capire che la genetica non potrà mai spiegare la complessità dei legami familiari», come ha scritto all’indomani della sentenza Michela Marzano su Repubblica. Proprio in ragione del fatto che i legami familiari sono all’origine di una nuova vita individuale, la loro certezza e univocità non consente una deliberata e preordinata moltiplicazione dei soggetti che concorrono alla generazione di un figlio e una dissociazione formale di ciò che è sostanzialmente unito nella persona dei genitori: la generazione nella carne e la filiazione nell’amore. La «storia dei nostri genitori» non è solo – come lascia intendere Michela Marzano – la «storia che li ha portati a desiderarci o meno, a volerci crescere e a darci o meno affetto, a trasmettere o meno valori e principi». È anche e anzitutto la storia della nostra generazione nella carne. Come ha limpidamente ricordato Giovanni Paolo II nella sua «Lettera alle famiglie» del 1994, «nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona».
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