sabato 29 agosto 2009
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Caro Direttore,sono rimasta molto colpita e addolorata dalla notizia che in Inghilterra è stato negato il trapianto di fegato a un ragazzo di appena 19 anni, ricoverato col fegato distrutto dopo avere bevuto 30 lattine di birra in un weekend. I medici hanno pronosticato due settimane di vita. L’episodio ne segue un altro analogo del mese scorso quando un ventiduenne, alcolista, è morto perché gli è stata negata l’operazione. Ho letto che una regola alla quale i comitati che valutano l’inserimento in graduatoria dei candidati al trapianto è la rinuncia all’alcol da almeno sei mesi. Nei due casi citati, questa non c’è stata. Ma adesso c’è un ragazzo moribondo al quale un trapianto potrebbe consentire di tornare a vivere. Come si può rifiutargli questa possibilità?

Mirella Quintili

In Italia, al momento sono in lista d’attesa per un trapianto di fegato 1.439 pazienti. Nell’anno in corso sono stati finora effettuati 621 trapianti; 996 quelli praticati in tutto il 2008. Il tempo medio di attesa dell’intervento è di due anni e il tasso di mortalità per chi è in lista è del 5,85%. Queste cifre bastano per comprendere la trepidazione – che col passare del tempo si fa sempre più angosciosa – di chi attende una chiamata da cui dipende la sua stessa vita. Ma i medesimi dati fanno capire la tremenda responsabilità in capo a chi compila le liste di attesa attribuendo l’ordine di precedenza. Il numero dei pretendenti supera di gran lunga quello degli organi disponibili; ogni scelta, mentre ridona la vita a una persona, ne sottrae un po’ a un’altra, prolungando la sua attesa e conseguentemente aumentando il rischio che non si riesca a «fare in tempo». Per questo col tempo si sono perfezionati dei protocolli che valutano gli aspetti clinici ma anche i comportamenti rilevanti in ordine alla patologia considerata. Ecco quindi che chi si candida a ricevere un fegato, perché ha il proprio organo compromesso da un tumore, viene sottoposto ad accertamenti per verificare che altri organi non siano già stati interessati da metastasi, nel qual caso viene escluso perché il beneficio sarebbe di breve respiro. Si valutano però anche gli stili di vita, come il fumo – che danneggia cuore e polmoni – e l’alcol, che va a gravare appunto sul fegato: se uno non se ne è liberato è elevatissima la probabilità di ripiombare nella condizione che aveva messo la vita a rischio. Ecco che il criterio alla base delle decisioni inglesi, mi sembra, si liberi dell’apparenza cinica per riscattarsi a regola severissima ma ragionevole. Nel dire questo, mi trema la mano che batte al computer: cosa non farebbe ciascuno di noi per salvare un qualunque giovane dalla morte? La ragione, tuttavia, ha le sue coerenze che sarebbe ipocrisia negare. Ci fosse adeguatezza di organi, potrebbero essere trapiantati con criteri meno selettivi, non dirò crudeli, ma essendo pochi, diventa decisivo tenere in adeguata considerazione tutti i fattori che influenzano il buon risultato e la durata dell’intervento. Chi non dà prova di poter rinunciare all’alcol, può essere destinatario di un organo, a scapito di una persona che offrirebbe tutte le garanzie di mantenimento di quel fegato? Sì, devo dirmi ben lieto di non fare parte di un organismo chiamato ad adottare decisioni del genere: sarei dilaniato senza pace; riconosco tuttavia che chi si assume un tale onere non può essere accusato di disumanità se si fa guidare da criteri razionali, obiettivi, pubblici e adeguati. Un saluto cordiale.
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