sabato 18 novembre 2017
Dopo i Pupi, la dieta mediterranea e altre 6 «specialità» italiane, ora in lizza c'è l'arte della pizza. A dicembre il verdetto
Foto Ciro Fusco (Ansa)

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Cosa lega l’'Arte dei pizzaiuoli napoletani' alla laguna di Venezia e agli scavi di Pompei? O, ancora, al Palazzo dei Papi di Avignone e allo yoga? Il filo è per ora sottile, ma potrebbe diventare più concreto da qui ai primi di dicembre quando (dal 4 all’8) a Seul si riunirà la commissione Unesco: nella Corea del Sud, 24 rappresentanti di singoli Paesi decideranno se iscrivere l’arte del fare la pizza nella lista del Patrimonio immateriale dell’umanità. Perché mentre tanti conoscono i capolavori (siti storici, archeologici o naturali) che questa organizzazione dell’Onu si propone di salvaguardare per evitarne la scomparsa, meno noto è il fatto che – da 14 anni – lo stesso organismo curi anche un elenco di beni immateriali. Insomma, l’arte del 'saper fare' che si affianca ai manufatti che dalle mani degli uomini sono stati creati.

Era il 17 ottobre 2003 quando la conferenza generale Unesco decise a Parigi di dar vita anche a una raccolta di 'Patrimoni immateriali'. Per sottolineare ancor più l’importanza del ruolo della cultura. Metodologie legate a particolari mestieri, prassi relative ai saperi legati all’artigianato o anche rituali ed espressioni del folclore. Come appunto la pizza napoletana, la cui candidatura, lanciata dalla commissione italiana a marzo 2016, è stata sostenuta da una grossa campagna d’opinione, anche per bruciare sul tempo la corsa – di cui si parlava da un po’ di anni – per una nomination della pizza 'american style', che suonava come un autentico smacco nazionale. L’iscrizione nella lista sarebbe un nuovo successo per il Made in Italy alimentare, dopo il positivo andamento di Expo 2015.

L’occasione per avviare la spinta finale, nell’ultimo mese prima della decisione, è stata #pizzaUnesco: la manifestazione di chiusura di questa gara internazionale si è tenuta martedì scorso a Napoli ed è stata l’approdo di un iter che ha visto 10 finalisti scelti fra 232 pizzaioli (attivi in 24 stati diversi) e 374 diverse ricette di pizza. Un 'contest' supportato anche da una raccolta firme sul web che, a fine ottobre, aveva visto aderire oltre 1,8 milioni di persone di oltre 90 Paesi e che ha l’obiettivo di quota 2 milioni, afferma l’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, oggi presidente della Fondazione UniVerde e promotore di #pizzaUnesco. Un risultato che rafforzerà il primato di quella che è già la campagna più popolare della storia a supporto di un’iniziativa Unesco.

Una candidatura in grande stile, insomma, come si addice a questa lista 'immateriale'. La sua creazione rispecchia un’evoluzione del concetto di 'patrimonio', per lungo tempo limitato a castelli, palazzi e dipinti, in larga parte europei, e ha permesso a Paesi 'giovani', che non si sono espressi in campo architettonico, di promuovere comunque le loro pratiche culturali. A oggi sono 429 i 'beni' immateriali censiti.

L’Italia è già presente con 7 voci: alcune che già godevano di fama, come l’Opera siciliana dei pupi e la produzione di violini a Cremona, altre più sorprendenti come il canto 'a tenore' (un pastorale sardo), le processioni a spalla di grandi macchine (a partire dalla più nota, il trasporto della macchina di Santa Rosa, a Viterbo) e, ultima entrata nel 2014, la coltivazione della vite 'ad alberello', tipica di Pantelleria. Due, in realtà, sono condivise con altri Stati: la dieta mediterranea e (dal 2016) la falconeria. Uno sguardo alla lista è davvero una finestra a trecentosessanta gradi aperta sul mondo: al suo interno si passa dalla rumba cubana alla birra belga, dalla klapa (musica tradizionale della Dalmazia) alla tessitura del cappello di paglia 'toquilla' in Ecuador, dal bigwala (danza ugandese) alle arti teatrali del Kabuki, del Noh e del Bunraku in Giappone, dal tajtib, un’arte marziale egiziana basata sull’utilizzo di bastoni, alle Fallas di Valencia, costruzioni artistiche in cartapesta e legno realizzate ogni anno in onore di San Giuseppe. Perché ovviamente si spazia dalle tradizioni religiose a quelle laiche.

L'arte della pizza deve superare una concorrenza agguerrita. Sono 35, infatti, le nomination che andranno all’esame del comitato che si riunirà in Corea. In lizza ci sono pratiche come il rebetiko, una danza tradizionale greca, o lo Nsima, piatto tipico del Malawi (sorta di porridge di mais con carne o pesce fritto cotto in grossi pentoloni). L’Italia punta sul riconoscimento di una tradizione semplice, la manipolazione di due sostanze basilari, come acqua e farina, e con un suo lato artistico: il lancio per aria dei dischi di pasta che, spiegano gli esperti, non si fa per folklore, ma per consentire alla pasta di 'prendere' ossigeno e per darle via via la forma che tutti conosciamo.

A vincere la gara di Napoli, allestita da Francesca Marino, ideatrice del sito 'Mysocialrecipe', è stato il 22enne Giuseppe Vitiello, erede di una famiglia casertana, con la sua pizza 'Doppia', un disco gourmet realizzato con due impasti sovrapposti: ripieno di provola sotto e, sopra, passata di pomodoro col basilico. A contendersi il titolo sono stati artigiani esperti, spesso giovani, ma con storie incredibili: da Giovanna Alberti, unica donna finalista, impegnata a divulgare la cucina italiana in Australia, a Salvatore Grasso, al comando di una delle 14 pizzerie centenarie di Napoli. «Abbiamo incassato un forte interesse, anche dall’estero, per quello che speriamo diventi il prodotto simbolo del made in Italy riconosciuto dall’agenzia dell’Onu», afferma la Marino.

Sono centinaia nel mondo i pizzaioli schierati per la volata finale, in particolare dal 20 al 26 novembre, nei giorni della II 'Settimana della cucina italiana', patrocinata dal ministero degli Esteri in più di 100 Stati. Eliminata dai mondiali di calcio, l’Italia potrebbe trovare un (parziale) riscatto attraverso questa via. Curiosamente, l’iniziativa della Farnesina prenderà il via proprio in Svezia (la nazionale che ci ha eliminati), a 'Giro Pizza', la prima pizzeria napoletana a Stoccolma. Tutta da raccontare è pure la storia di Fabio Cristiano: 'maestro' in quanto fondatore della Scuola del pizzaiolo, una vera accademia con corsi mensili dove ha cominciato a insegnare quest’antica arte – primo caso in Italia – anche ai non vedenti (a Napoli ha ricevuto una menzione speciale per la sua pizza 'mandolino', così chiamata per la forma che richiama lo strumento), in pochi giorni sarà l’'ambasciatore' della Farnesina chiamato a dividersi fra Copenhagen, Madrid e Budapest, per finire a Detroit, negli Usa.

Una mobilitazione che non deve sorprendere, visto il notevole risvolto economico: il mondo della pizzeria, in Italia, rappresenta circa il 50% della ristorazione tradizionale. I ristoranti-pizzeria, i locali d’asporto, al taglio e a domicilio sono oggi circa 48mila. Si calcola che, in media, ogni esercizio commerciale produce 80 pizze al giorno, per un totale grosso modo di 4 milioni di margherite, capricciose e calzoni divorati ogni dì (oltre un miliardo di 'pezzi' nell’arco dei circa 300 giorni lavorativi l’anno) e preparati da un esercito di circa 100mila artigiani del settore. E dire che, paradossalmente, sul piano legislativo il pizzaiolo non esiste. Dal 2016 si trova in Parlamento, ma giace fermo in commissione al Senato, un ddl, firmato dal forzista Bartolomeo Amidei, per istituire un Albo dei pizzaioli professionisti (altri tentativi furono fatti in passato, sempre invano). Ma ora tutta l’attesa è puntata su Seul.

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