sabato 15 gennaio 2011
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Proveremo un po’ di imbarazzo, noi del ‘78, nel momento in cui rivolgeremo le nostre preghiere al nuovo beato, Karol Wojtyla. Imbarazzati come chi non sa con quale tono parlare a una persona che fino a ieri era solo uno «di famiglia», quasi un nonno, e da domani verrà venerato come un modello di santità. Sia ben chiaro: mai abbiamo avuto la percezione di vantare uno speciale diritto di possesso sull’eredità di Giovanni Paolo II, sapevamo da tempo che il suo spirito appartiene a tutta l’umanità, eppure nel cuore abbiamo sempre coltivato la convinzione che tra lui e noi, nati nell’anno in cui la Chiesa lo sceglieva come Papa, ci fosse un legame privilegiato. Da ragazzini non capivamo bene perché gli adulti si stupissero così tanto davanti ai suoi gesti, giudicati così straordinari, alle sue parole, ai suoi viaggi. Non abbiamo conosciuto la paura dell’attentato del 13 maggio 1981: io quel giorno compivo appena tre anni. L’abbiamo sempre conosciuto e amato per le sue azioni da Papa e non per ciò che era stato prima del ‘78 o nel confronto con altri Pontefici. Proprio come con i nostri genitori: non li abbiamo conosciuti «prima di noi» e li amiamo per ciò che ci danno come mamme e come papà. Tanto più che nella mia famiglia a rendere così quotidiano l’amore per il Papa c’era la bisnonna materna, di undici anni più vecchia di quel Papa venuto da «oltre confine» e sentito così vicino al mio Friuli, da sempre terra di confini, segnata dalla «cortina» abbattuta anche grazie al coraggio di Wojtyla. Nella sua stanzetta scaldata dal fuoco, la bisnonna alimentava la sua devozione con il Rosario e con il più popolare degli affetti per quel Successore di Pietro, abitante nei bei palazzi vaticani ma sempre vicino ai fedeli più semplici. Poi sono venuti gli anni dell’adolescenza e ascoltandolo abbiamo trovato la conferma che il nostro affetto era ben riposto. L’abbiamo visto danzare, l’abbiamo visto commuoversi, l’abbiamo visto arrabbiato davanti alle ingiustizie. Ci ha sempre abituati, insomma, a puntare in alto con la più profonda umiltà. Tra i momenti che ho fissato nella memoria c’è quella domenica 3 maggio 1992 in piazza I Maggio a Udine: parlando ai giovani – io in realtà, neanche quattordicenne, ero quasi un “clandestino” – il Papa lasciò perdere il discorso ufficiale e si fermò a riflettere su quanto quello fosse un «momento di grazia». Momenti così ne avremmo vissuti ancora tanti insieme: come dimenticare la Gmg 1997 a Parigi, quando noi vivevamo la nostra estate della maturità, la scelta del nostro futuro, e lui ci invitava a seguire il Maestro? E poi come non definire «momento di grazia» la Gmg del 2000 a Roma: chi mai ci aveva chiamato «sentinelle del mattino»? E poi l’abbiamo visto debole e infermo, ma senza mai provare paura. Sapevamo che era giunto il momento di restituirgli tutti i momenti di grazia che ci aveva fatto vivere: tanti di noi in quella primavera del 2005 accorsero in piazza San Pietro; io, impedito dal lavoro, da Milano seguivo con la mia fidanzata il suo Calvario e in casa ardeva un piccolo lumino, segno di quel calore umano e spirituale nel quale siamo cresciuti anche grazie a Wojtyla. Sciocchi, noi, nel pensare di poter dare qualcosa a lui: ancora una volta, infatti, fu lui a donarci il momento di grazia più intenso della nostra vita, chiamandoci al suo capezzale. Forse, a pensarci bene, quel giorno imparammo il modo giusto per dialogare con lui nelle nostre preghiere, anche ora che sarà beato. Un «nonno–beato» che mi piacerebbe far conoscere anche a mio figlio, in arrivo proprio nell’anno in cui il «nostro Papa» viene donato alla venerazione di tutto il mondo.
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