Se tutto è avvolto di follia
martedì 22 maggio 2018

Quando la follia avvolge tutto. Questo potrebbe essere l’occhiello della

“tragedia del viadotto”, avvenuta domenica a Francavilla al Mare,

in provincia di Chieti, in Abruzzo. Una follia che forse non sarà mai neppure appieno ricostruibile, per aver annientato tutti, autore e vittime. Questi sono i pochi dati non smentibili che al momento si hanno: una professoressa di liceo vola giù dal quarto piano (morirà ore dopo in ospedale) di un appartamento in precedenza locato studenti presso il campus universitario di Chieti Scalo; il marito, un manager della Brioni Style, resta appeso per sette ore prima di buttarsi giù, all’esterno della rete di un viadotto autostradale, alla base del quale è il corpo di una bambina di 10 anni; non permette ad alcuno, sotto, di avvicinarsi a lei, ma non servirebbe a niente, è morta sul colpo; e infine una forte lite era stata sentita da parte dei vicini (in questa tranquilla coppia, di elevata condizione socioculturale), nelle ore precedenti. Se i dati sono pochi, la dinamica emerge chiara: la bimba da casa dei nonni è stata portata lì e scaraventata giù dal padre; per il volo dal quarto piano, il suo comportamento fa ritenere probabile che non si sia trattato di un incidente o di un gesto volontario di lei, bensì di un primo omicidio compiuto da lui. Quanto orrore. Quanto raccapriccio.

L’Abruzzo – luogo di vacanze balneari in arrivo sulla costa, regno della movida – era già sotto choc dal tempo della tragedia di Rigopiano, avvenuta a gennaio 2017, coi 29 morti dell’hotel travolto dalla valanga; da poche settimane nel 2018 lo era con la scomparsa del ragazzo di Spoltore, figlio di una famiglia di imprenditori, ritrovato ucciso a colpi di pistola in un fosso. Ora lo è con questi tre morti, in una spirale dalle agghiaccianti dinamiche, per chi provi a raffigurarsele. Una riempie di orrore più d’ogni altra: l’immagine dell’ultima fase di vita della bimba di dieci anni, caricata in macchina e buttata giù dal viadotto. Il resto riguarda le sette interminabili ore, seguite da tutti i media, dell’uomo appeso alla rete, che si sposta con passi sempre più esitanti, urlando a tutti di andarsene, e che sembra presa da un racconto di Stephen King.

Gli accertamenti stanno seguendo il loro corso. Parenti, amici, vicini, colleghi, conoscenti verranno ascoltati. Qualcosa, forse anche d’inatteso, trapelerà. Ma il tutto già si presenta, e resterà, avvolto nel velo nero della follia, di un black out mentale di annientamento, che non risponde ai canoni, purtroppo consueti, del raptus familicida: troppe sono le ore, dall’inizio alla fine, che è durata la strage. Sono fenomeni non razionalizzabili, la scienza li catalogherà e li nominerà in futuro (e dar loro un nome non aggiungerà alcunché alla loro comprensione). Intanto è successo. E questo dà un’altra certezza, agli inorriditi d’Abruzzo, d’Italia e di tutto il mondo: la follia cammina, non percepita, tra noi e siamo indifesi rispetto ad essa. Fuori della matrice di un anomalo familicidio, l’accaduto non ha la collocazione socioeconomica propria di altri fatti ed eventi criminosi, quali quelli osservati dalle forze politiche e che qualcuno possa avere la pretesa di individuare, prevenire, contrastare. Ci sarebbero volute qui percezioni presensoriali alla Minority Report, volendo citare lo scrittore Philip Dick, solo che quello è un racconto, questa è una realtà (e stonano, comunque, tutti i riferimenti letterari, anche quando si interrogano sul tema del buio della mente).

Protagonista, dunque, la pazzia? Sì. Pazzia covata, poi esplosa, omicida e suicida? Sì: al di là dell’evento scatenante della lite, o delle rivelazioni che seguiranno; al di là di quella che psichiatri e criminologi non a caso definiscono “concausa scatenante della follia”, presupponendo di base quest’ultima. Quale altra possibile matrice, infatti, potrebbe sorreggere accadimenti susseguitisi in questo modo? Qual mai altro movente offrirne una diversa configurazione? Resterà solo la terrificante fragilità-madre di violenza, dell’essere umano, ad ascrivere tutti, vittime e colpevole, alla follia, quale protagonista dei tre morti di Francavilla.

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La tragedia tre volte mortale di Francavilla al Mare/1.

L'ultima battaglia di un uomo


Marina Corradi

martedì 22 maggio 2018


Per tutto il pomeriggio di domenica nelle immagini dei tg quell’uomo aggrappato alla rete di protezione del viadotto dell’A14, verso Francavilla al Mare, i piedi a stento poggiati sulla soletta di cemento: sotto, un abisso
di trenta metri, in basso carabinieri e polizia e ambulanze, e curiosi
con gli occhi all’insù. Fausto Filippone, 49 anni, dirigente d’azienda,
sposato, padre, uomo definito da tutti tranquillo, a mezzogiorno di una
domenica di maggio ha visto la sua vita travolta da una tragica, ancora
oscura piena. La moglie, insegnante, precipita dal terzo piano di casa e
muore poco dopo. Caduta? Spinta? O invece si è buttata? Non ci sono
testimoni, nessuno sa. Ma pochi minuti dopo Filippone va a prendere la
figlia Ludovica, dieci anni, dagli zii e si dirige verso l’A14. Verso un
viadotto che corre sopra un precipizio. Ferma la macchina al km 389,
come se già conoscesse quel punto. Come se altre volte, passando in
auto, avesse annotato fra sé quando terribile era il vuoto, lì sotto.
Prende per mano la figlia, la solleva oltre il guard-rail, la precipita
nel nulla. Tocca il suolo con un tonfo leggero il suo piccolo corpo di
bambina.

Poi, anche l’uomo scavalca. Ma non si butta. Per sette
ore resta lì, in quel vertiginoso bilico, e così, ora dopo ora, lo
vediamo in tv. Ora dopo ora, la nostra domenica tranquilla e quell’uomo
sul viadotto, che guarda giù, stacca una mano dalla rete, sembra
decidersi, poi torna a aggrapparsi saldamente. “Scusa! Scusa!”, grida
nel vuoto, come rivolto alla bambina. Non vuole che nessuno le si
avvicini. Ascolta a stento le parole degli agenti e degli infermieri,
che lo esortano a desistere. Di nuovo si stacca dal sostegno. Di nuovo
cambia idea. Per sette ore. Un’infinita pena, in te che pure lo guardi
da estranea. Un’infinita pena per quell’uomo che, spinto da non sai
quale disperazione o follia, ha appena, comunque, ucciso la sua bambina,
e dunque nel cuore è già come morto; e vuole, ha deciso di farla
finita, giacché il pensiero di ciò che ha fatto è insopportabile; eppure
qualcosa all’ultimo istante lo trattiene, e le mani sudate si
riavvinghiano all’ultimo sostegno. Cosa lo ferma? Un istinto di vita
terribilmente umano, terribilmente forte. La moglie è morta, la bambina
è quella piccola chiazza chiara inerte, laggiù fra i cespugli. L’ha
buttata forse per non lasciarla sola in un mondo che gli pare terribile,
l’ha buttata con l’idea di seguirla immediatamente e morire insieme?
Ma, adesso, non ce la fa. Il nulla, sotto, gli comunica un orrore
insuperabile.

La vita di Fausto Filippone in un’ora, non sappiamo
ancora come, è stata sconvolta da una frana di morte. Eppure questo
pover’uomo ancora ha in sé una fiammella che gli sussurra: non farlo,
vivi, c’è ancora una speranza. Quando alza gli occhi al cielo, è forse
per una preghiera? Che immane lotta, al chilometro 389 dell’A14, mentre
le auto dietro sono ferme in coda, e nessuno suona il clacson. Di sotto,
fra chi è accorso a vedere, ci si racconta di una famiglia normale, mai
una lite. Un lutto, sì, la mamma di lui morta recentemente, dopo una
lunga malattia, e il figlio fattosi più silenzioso. Ma in quante case
muore un vecchio, e la vita, pure dolorosamente, continua? Appena
l’altro giorno, dicono i conoscenti, Fausto e la moglie avevano portato
la bambina a una manifestazione canora. Ludovica aveva cantato
“Controvento” di Arisa. Tutto così semplice, così familiare. Nessuno
che si fosse accorto di niente. Poi, repentina, l’onda di morte.
Quell’uomo tranquillo trascinato via, spinto all’inaudito: uccidere la
figlia. Certo pensando: e subito mi getto anch’io. Invece, sette
infinite ore. Lottando, diviso fra forze immani. La morte, e, nonostante
tutto, ostinata, la vita, che gli attanaglia alla rete di metallo le
mani. Infine, è quasi sera, uno schianto. L’epilogo della tremenda
battaglia di un pover’uomo. Il cielo sopra, immenso e muto. Eppure, ne
sei certa, una misericordia immensa ora abbraccia quel soldato travolto e caduto.

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