lunedì 18 novembre 2013
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Sta emergendo una nuova domanda di partecipazione nel consumo, nel risparmio e nell’uso dei beni. Una differenza cruciale, ad esempio, tra l’internet di alcuni anni fa, abitato da siti web e dalle email, e il web dei social media e delle Apps, è un maggior coinvolgimento e protagonismo di noi abitanti della rete. Analogamente, la tv oggi non manda in onda soltanto programmi per "telespettatori", ma ci chiede di votare il cantante o il giocatore migliore. E la cosa interessante è che la gente partecipa, investe tempo per dire la propria opinione e per sentirsi parte attiva di una nuova forma di comunicazione: per fare un’esperienza. Molti dedichiamo tempo per scrivere o arricchire, in modo anonimo, le voci di Wikipedia, o per migliorare un software libero. È come se stessimo creando nuove "piazze", dove la gente sta tornando, diversamente e con gusto, a parlare, a perder tempo disinteressatamente. Un fenomeno di certo ambivalente, ma l’ambivalenza può essere anche l’inizio di un discorso generativo – dove non si accetta l’ambivalenza, arriva la dicotomia.Agli uomini e alle donne, il solo consumo dei beni non è mai bastato. Da animali simbolici e ideologici quali siamo, abbiamo sempre chiesto di più alle nostre merci: dallo status sociale alla rappresentazione di futuri migliori durante presenti indigenti. Alcuni beni sono talmente legati a un’esperienza, che gli economisti li hanno chiamati «beni d’esperienza» (experience goods), sono quei beni che riusciamo a capire e valutare solo dopo averne fatto esperienza diretta e personale. Sono beni di esperienza quasi tutti i beni culturali e turistici. Posso valutare se ho speso bene il biglietto per un museo mentre lo visito, non prima; capisco se il prezzo di quel week-end nell’agriturismo era congruo solo quando mi trovo sul posto, vedo il paesaggio, l’ambiente e incontro i padroni di casa. Il mercato non ama questa inevitabile incertezza, e cerca di offrirci alcuni degli elementi decisivi per valutare ex ante un hotel o un ristorante. Ecco allora il sito internet sempre più ricco di foto, e soprattutto il peso crescente delle recensioni dei clienti, che è talmente importante che rischiamo di veder nascere un mercato incivile di compravendita di recensioni positive, e negative (per i concorrenti).E qui si aprono discorsi centrali per comprendere l’evoluzione del nostro sistema economico e sociale. Innanzitutto nei beni di esperienza sono gli elementi di contorno quelli che risultano essere decisivi. Posso avere il più bel sito archeologico del mondo, ma se non c’è un intero sistema territoriale (trasporti, hotel...) che funziona, il valore di quel bene precipita, e porta giù con sé il valore d’intere regioni. Posso trovare agriturismi in ottime località umbre, ma se quando arrivo non trovo quello stile relazionale frutto di secoli di cultura dell’accoglienza, che si traduce in mille dettagli concreti e cruciali, il valore di quella vacanza scompare o si ridimensiona molto.In questi beni si coglie nella sua purezza uno dei tratti più complessi e misteriosi della nostra società di mercato. Quando un inglese viene in vacanza in Sicilia, va in cerca anche di dimensioni intrinseche a quelle culture, che non sono semplici merci. Certo, sa che il Resort e il ristorante tipico sono imprese commerciali e che quindi rispondono alla logica del profitto; ma sa anche che parte del benessere di quella vacanza, a volte la più consistente, dipende dalla presenza di contesti culturali, che sebbene entrino (eccome!) nel prezzo di quell’alloggio e di quel pranzo non sono semplici merci "prodotte" da quegli imprenditori a mero scopo di lucro. Tanto che il valore di assistere a una vera sagra paesana o a una autenticamente sentita rievocazione storica è, per quel turista inglese, significativamente maggiore di quelle rappresentazioni folkloristiche un po’ taroccate, organizzate a pagamento dal ristoratore.Nei nostri territori esistono, in altre parole, dei patrimoni culturali e relazionali che sono degli autentici beni comuni, accumulati nei secoli, che diventano anche vantaggio competitivo delle nostre imprese e che generano profitti. Occorre custodirli, perché da loro dipende molto della nostra forza economica e civile presente, e ancor più futura. La nostra politica industriale dovrebbe far di tutto per legare i prodotti ai territori: deve dire con tutti i mezzi che il consumo dell’oliva ascolana è un bene di esperienza, e quindi che se la si vuole veramente "mangiare" occorre andare in quei territori, perché la qualità e il sapore di quell’oliva sono fatti anche di dialetto, paesaggio, terra, cultura. Così attorno ai nostri gioielli tipici crescono intere economie locali e si creano posti di lavoro; altrimenti, se spersonalizziamo e anonimizziamo i nostri prodotti e li vendiamo in ipermercati globalizzati od online, perderemo nel tempo biodiversità, redditi e lavoro.Un secondo ambito è, poi, il cosiddetto consumo critico e responsabile. Ciò che ci porta, ad esempio, in quelle botteghe civili e speciali del "commercio equo" è soprattutto la ricerca di una esperienza. Per questo è essenziale dialogare con chi vi lavora, farsi raccontare le tante splendide storie dei beni, far "parlare" la gente che li ha prodotti; intrattenersi magari a scambiare qualche parola sul nostro capitalismo, o incontrare qualche altro cliente che è lì per fare la nostra stessa esperienza. Il valore di questo consumo non è contenuto soltanto nelle caratteristiche del bene, ma anche nell’esperienza interpersonale che facciamo quando ci rechiamo in un negozio, in una filiale di una banca, in un mercato. L’etica senza esperienza è solo ideologia.Infine, dobbiamo prendere coscienza che tutti i beni di mercato stanno diventando beni di esperienza. È questo un paradosso cruciale nell’economia di mercato contemporanea. Da una parte, il mercato ha bisogno di produrre una massa crescente di beni senza troppe varianti, poiché le economie di scala e le esigenze di costo portano a consumi di massa di merci simili per poterli riprodurre, con poche varianti e a basso costo, in tutto il mondo. E così si sono mosse le imprese del XX secolo. Ma queste imprese si trovano oggi a fronteggiare anche una tendenza opposta. La democrazia e la libertà generano milioni di persone con gusti e valori diversi, dove ciascuno sa di essere unico e non omologabile, anche nei consumi. Ecco allora che le grandi imprese cresciute con la mentalità del consumo di massa, devono ripensarsi profondamente. Da una parte, come consumatori siamo attratti dall’avere esattamente quel tipo di computer o telefonino status simbol; al tempo stesso, però, vorremmo che il nostro pc avesse qualcosa di unico disegnato sulla mia persona. Vorrei, cioè, che l’esperienza che io faccio con quel pc sia unica e solo mia, perché soltanto io sono io. Ecco allora che si aprono prospettive intriganti e rilevanti per il prossimo futuro industriale ed economico.Le nostre imprese di successo, anche su scala mondiale, saranno quelle capaci di mettere assieme prodotti che possono essere venduti su mercati sempre più globali, ma soprattutto capaci di coinvolgere il "consumatore" in un’esperienza nella quale non si sente uno dei tanti anonimi e cloni possessori e utenti, ma un pezzo unico. Si capisce allora che ci attende un grande sviluppo di "fai da te" più sofisticati degli attuali, fatti di un intreccio di beni standardizzati, di assistenza tecnica e della nostra creatività nel personalizzare abitazioni, giardini, siti internet, e domani quartieri e città.Quando usciamo di casa per scendere nei mercati, cerchiamo esperienze più grandi delle cose che compriamo. Troppo spesso, però, i beni non mantengono le loro promesse, perché quelle esperienze sono troppo povere rispetto al nostro bisogno di infinito. E così, delusi ma capaci di dimenticare le delusioni di ieri, ricominciamo ogni mattina le nostre liturgie economiche, in cerca di beni, di esperienze, di vita.
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