giovedì 9 agosto 2012
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​Qualcuno prima o poi dovrà decidersi a scrivere la storia delle Olimpiadi dalla parte dei padri. La pubblicità di una potente multinazionale, scelta per Londra 2012, sta invece da tempo puntando sulle madri. «Grazie di cuore, mamma!» è lo slogan posto in chiusura di una serie di suggestive immagini di donne che nel segreto si dedicano a tirar grandi i figli, accudendoli e accompagnandoli con pazienza. Siamo ancora lì, a una certa retorica sulla mamma e sul suo rapporto esclusivo col figlio: di padri neanche l’ombra in questo spot che pure ha commosso tutto il pianeta. Madri eroine, madri sacrificali, ma senza uomini. E invece loro, i padri, con tenera prepotenza, in questi giorni si sono ripresi il loro posto. Non siamo più in uno spot: davvero le lacrime bagnano il viso e la rabbia serra i pugni, veramente il quarto posto delude e il doping distrugge. Due padri diversi, quelli di Tania e di Alex, accomunati dall’avere un figlio che ha scelto di essere anche atleta, che ha deciso di gareggiare in nome di tutti, rappresentando una nazione. Entrambi ci hanno sorpreso con le loro dichiarazioni, così sincere e umane, di fronte alla non riuscita dell’impresa.Diverse le reazioni perché tanto diverse le circostanze, eppure così simili per un tratto che li accomuna: uno sguardo sulla realtà che non cerca alibi o colpevoli. Giorgio Cagnotto, padre e allenatore, ci ha sorpreso per la totale assenza di polemica nei confronti di chi per venti centesimi di punto avrebbe vanificato venti anni di allenamenti: «Basta parlare dei giudici, Tania non doveva sbagliare nulla e invece l’ha fatto». Non è crudezza la sua, perché non sottrae al rapporto, piuttosto un caso di realismo. Di Josef Schwazer invece ricorderemo lo sgomento di un padre che ammette di non aver saputo essere una presenza per il figlio: «Se si vede un figlio che durante tutto l’anno è stato male, si deve capire e cercare di parlargli». Attenzione che evidentemente si imputa di non aver avuto.A questi due padri, al loro accostamento così improbabile e imprevedibile, va il nostro ringraziamento per averci ricordato che quelli che sudano nei nostri teleschermi non sono macchine da record, non sono androidi dalle prestazioni eccellenti, ma sono uomini, ossia figli. E figli proprio perché hanno un padre. Un uomo di carne, magari troppo duro o incapace di vicinanza, che ha fatto e fa quel che può per introdurli al reale.Fra pochi giorni le troupe abbandoneranno Londra, gli schermi si riempiranno di nuove serie tv e noi torneremo a qualche scampolo di vacanza o direttamente alle occupazioni di sempre. Di quelle macchine che correvano, nuotavano, sparavano, duellavano, si tuffavano e da cui pretendevamo una scarica adrenalinica per ravvivare la nostra estate non ci interesserà più molto. Avremo altro di cui parlare, lamentarci e scandalizzarci.E gli atleti, fuori dalla bulimia mediatica che li vuole solo al top, pena la delusione nazionale e la minaccia della perdita dell’amore collettivo, potranno finalmente tornare a essere uomini. Spenti i riflettori, si apre un nuovo capitolo per loro e noi gli auguriamo la vicinanza di un padre, che sia quello naturale o chiunque si renderà degno di tale nome.Per continuare a prepararsi e battersi ogni giorno, è necessaria la certezza che venti centesimi di punto non potranno mai cancellare vent’anni di allenamento e che neanche la sciocchezza di una infusione di Epo riesce ad annullare il lavoro fatto. In quegli innumerevoli istanti di solitudine, buttandosi in piscina o sudando sulla pista di atletica, per loro si è infatti consumata la sfida più importante della vita: aderire al reale, farlo proprio nell’istante. Ossia essere figli, che significa poi essere eredi. Non (necessariamente) campioni.
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