mercoledì 7 agosto 2013
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Oltre un anno e mezzo e centomila morti dall’inizio di una rivolta degenerata in guerra civile e poi in aperta, selvaggia mattanza, il "dopo Assad" sembra assomigliare sempre più alla linea dell’orizzonte: sempre in vista e però irraggiungibile. Forte di una serie di discreti e significativi successi militari - raggiunti anche grazie al coinvolgimento diretto delle milizie di Hezbollah e al crescente rifornimento di armi e consiglieri da parte russa e iraniana - il raìs damasceno appare oggi più saldo che mai sul suo trono insanguinato. Le sorti della guerra si direbbero ormai capovolte: non tanto perché Afez possa tornare in tempi ragionevoli a governare l’intero Paese come faceva prima dell’inizio della rivolta, quanto nel senso che la "spallata" tentata dal composito - e sempre più diviso, oltre che politicamente inquietante - fronte dei ribelli è fallita, mentre alle forze governative è riuscito di ricacciare indietro gli avversari e di metterli sulla difensiva, quando non di costringerli alla ritirata.Assad ha saputo giocare assai meglio dei suoi oppositori le poche carte che aveva a disposizione: l’alleanza aperta di Russia, Iran e Hezbollah, il sostegno discreto della Cina. Pochi amici ma ben determinati a impedire che il loro protetto facesse la fine di Gheddafi. Gli "amici della Siria", come si erano pomposamente autobattezzati i numerosissimi governi che sostenevano l’opposizione, non sono invece riusciti ad andare oltre a proclami talvolta bellicosi talaltra velleitari, a perorazioni di buona volontà, a inviti al dialogo sempre però condizionati dall’esclusione del presidente siriano. E per il resto si sono mossi in ordine sparso: i regimi arabi conservatori finanziando abbondantemente e armando le formazioni più radicali, spesso vicinissime al jihadismo; i governi occidentali, a mano a mano che i gruppi "moderati" perdevano rilevanza militare e politica, sempre più perplessi di un appoggio troppo acriticamente promesso e soprattutto intimamente pentiti di aver bruciato intempestivamente ogni possibilità di dialogo col regime.A pagare il prezzo dei calcoli e degli errori strategici altrui, oltre che del cinismo dei responsabili politici damasceni, come al solito è il Paese con la sua popolazione. La Siria che conoscevamo, quella delle meraviglie di Aleppo, Damasco, Homs, non esiste più. Al suo posto un mare di macerie,  un destino analogo a quello toccato al vicino Iraq. Per chiunque abbia avuto la fortuna di vedere con i suoi occhi le meraviglie di quella terra, lo strazio di saperla ridotta com’è ora non ha parole sufficienti a descriverlo. Ma è il panorama civile che lascia ancora più sgomenti. Con milioni di sfollati interni e di profughi accampati in Turchia, Libano e Giordania, la società siriana è allo sfascio. Quel caleidoscopio rappresentato da sunniti, alawiti, drusi e cristiani, miracolosamente sopravvissuto a ondate successive di conquistatori, al sorgere e al cadere di imperi, alla nascita di Stati disegnati dalle potenze occupanti con nessun rispetto delle tradizioni storiche e della composizione interna, è stato devastato per sempre. Tutti hanno pagato un prezzo altissimo all’incapacità di trovare vie d’uscita ragionevoli e non disonorevoli quando ancora forse era possibile, ognuno illudendosi di poter "vincere", dimenticando che in tutto il Levante, ogni gruppo "maggioritario" in un Paese è minoritario in quello accanto. Basti pensare all’equilibrio tra sciiti e sunniti in Iraq, Siria e Libano. Il destino più crudele è però quello toccato ai cristiani: com’è già accaduto in Iraq, anche in Siria la loro sopravvivenza è decisamente a rischio. Una presenza lunga quasi duemila anni, spesso in condizioni tutt’altro che agevoli, potrebbe finire, o ridursi a livello di poco più che simbolica testimonianza. Una tragedia non molto diversa, per il panorama umano della Siria, di quello che rappresenta per il panorama artistico di Aleppo, Homs o Damasco la distruzione di vestigia antichissime e di inestimabile valore.
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